Uras
Ai piedi dello splendido parco del monte Arci, dove, grazie ai giacimenti di ossidiana, è iniziata la sua storia, si adagia in un tratto di pianura attraversato da vari torrenti, in parte coltivato e in parte ricoperto da macchia mediterranea. Uras è un paese di poco meno di tremila abitanti ai confini tra Campidano settentrionale e centrale, legato a tradizionali attività agricole, pastorali e tessili. Il centro storico conserva architetture rurali in mattoni crudi e pietra e si sviluppa attorno all’imponente parrocchiale di santa Maria Maddalena in stile barocco (1664-82). A inizio XVIII secolo accanto alla facciata fu eretto il campanile a canna quadra sormontato da ottagono con orologio e cupolino. La patrona è celebrata a fine luglio.
In paese sorgono altri due interessanti edifici di culto. In periferia si erge Sant’Antonio, con facciata sormontata da un campanile a vela. All’interno il muro di fondo è dominato dall’altare in pietra con decorazioni a fogliame. Il santo è festeggiato a metà giugno. La chiesa di san Salvatore è passata alla storia per la battaglia del 14 aprile 1470 svoltasi nei suoi pressi, dove Leonardo Alagon sconfisse gli aragonesi del viceré Carroz. Vicino all’edificio osserverai una struttura nuragica, il cui pietrame è in parte inglobato nella chiesa. Probabile che essa sia sorta su un luogo sacro precristiano, forse dedicato al culto delle acque. San Salvatore è festeggiato il martedì dopo Pasquetta con una giostra equestre, sa cursa de su pannu, che ricorda la sanguinosa battaglia. La vittoria di Alagon non è l’unico celebre episodio storico di Uras: è citato fra i paesi che nel 1388 firmarono l’atto di pace fra Eleonora d’Arborea e re d’Aragona. Nel 1515 fu preda di incursioni saracene e nel 1546 distrutto dal Barbarossa. Riprese a vivere un secolo dopo.
Le origini uresi risalgono a fine III millennio a.C., quando nell’Isola si sviluppava la cultura prenuragica di Ozieri. Alcune ceramiche del periodo sono state ritrovate in località sa Grutta manna. A Roja Cannas, alle falde del monte Arci, è stato individuato il maggiore tra i giacimenti di ossidiana attivi nel Neolitico: Uras svolgeva un ruolo di rilievo nel commercio di manufatti del prezioso minerale. Il territorio fu densamente abitato in età nuragica: ci troverai 22 torri megalitiche, due tombe di Giganti e il gigantesco nuraghe complesso sa Domu Beccia, a circa 800 metri dal paese, databile tra XV e XI secolo a.C. È un imponente edificio pentalobato in basalto, costituito da un bastione triangolare (a tre torri), che racchiude il mastio e un cortile, e da un antemurale di pianta ettagonale, con sei torri di diametro fra cinque e sei metri. A sud del complesso, si estende un vasto villaggio: 150 capanne circolari ben conservate. Sul lato nord, si individua il profilo di una tomba di Giganti. Uras fu anche centro punico ma soprattutto notevole stazione in epoca romana lungo la grande arteria stradale Calaris-Turris Libisonis.
Seneghe
Si arrampica sul monte sos Paris, nel versante est del Montiferru, immerso in boschi di lecci e sughere, irrorati da sorgenti benefiche’, non a caso il nome risalirebbe a s’ena (vena sorgiva). Seneghe è un centro agricolo di mille e 800 abitanti, che conserva un suggestivo centro storico e un ricco patrimonio archeologico, all’interno di un paesaggio ideale per escursioni e ricoperto da olivi (65 mila alberi in 200 ettari). Il borgo è noto per produzione di miele e, soprattutto, di olio d’oliva, che nel 1994 ha ricevuto l’‘Ercole olivario’, massimo premio nazionale. Il Comune è socio-fondatore delle città dell’olio. All’olio sono dedicate famose manifestazioni: a fine anno, nella seicentesca casa aragonese, la consegna del premio Montiferru e a fine novembre, Prentzas Apertas, occasione per assaporare anche formaggi e dolci lungo vie del centro e vecchi frantoi. L’economia è storicamente fondata anche su allevamento e artigianato: eccellenze sono carni del ‘bue rosso’, formaggio casizolu, manufatti di legno, pietra e ferro, strumenti musicali e abiti tradizionali.
La villa de Seneghe è citata nel condaghe di santa Maria di Bonarcado insieme alla sua chiesa più significativa, Santa Maria de sa rosa, all’ingresso del paese e risalente a XI-XII secolo. A inizio luglio è sede della festa più coinvolgente e di un’ardia (corsa di cavalieri). Il paese si sviluppa attorno alla baroccheggiante (ex) parrocchiale dell’Immacolata Concezione, consacrata nel 1893, la cui cupola alta 36 metri svetta in cima a sos Paris. La nuova parrocchiale di san Sebastiano martire è stata ultimata cinque anni dopo. A poche centinaia di metri si trovano la piazza dei Balli, cuore pulsante del borgo, e la seicentesca chiesa di sant’Antonio da Padova, testimone dell’epoca spagnola. Le piazze sono costellate da pozzi e fontane. Il 20 gennaio il falò per san Sebastiano dà inizio al carnevale seneghese, che termina il martedì grasso con sas andanzias, spettacolari danze. Suggestivi i riti della Settimana Santa, accompagnati dai cori a cuntrattu, a quattro voci. Al canto è legata la poesia: a inizio settembre, come d’incanto, il paese si popola di appassionati di letteratura per il festival internazionale Cabudanne ‘e sos poetas, premiato nel 2009 quale migliore evento poetico italiano e preceduto di pochi giorni dalla rassegna Musica senza confini. Giugno è tempo di feste religiose, in onore di sant’Antonio, san Giovanni e un’altra ardia dedicata ai santi Pietro e Paolo.
Dall’abitato, incastonato tra rilievi e pianura, intraprenderai itinerari nel Montiferru con vedute mozzafiato su vallate del Campidano, penisola del Sinis e vette del Gennargentu. Nelle cime dominano lecci e agrifogli: da esplorare le foreste di Pabassiu e il bosco su Monte, dove osserverai alberi secolari. Il territorio è frequentato dal Neolitico, come mostrano dolmen e menhir, e fu densamente abitato nell’età del Bronzo: un centinaio di monumenti nuragici circondano il paese, che fanno di Seneghe uno dei Comuni a più alta densità nuragica e meta di itinerari archeologici. Tra le tombe di Giganti si distinguono quelle di Serrelizzos e s’Omo de sas zanas, tra i nuraghi ben conservati, quello ‘a corridoio’ Narba, il quadrilobato Zinzimureddos, il trilobato Campu e i monotorre Lande e Littu. Tra tutti spicca la maestosa reggia quadrilobata di Mesu Maiore. Tra i numerosissimi reperti si distinguono una testa femminile in marmo, una piccola testa di leone e un medaglione in bronzo. Di età fenicia rimane intatto il selciato della strada da Cornus al villaggio di Serrelizzos. Del dominio romano la maggiore eredità è la fonte termale Funtana Fraigada. Vivrai anche il fascino decadente dell’archeologia industriale in un luogo impervio e abbandonato: la miniera su Enturgiu con villaggio minerario immerso nei boschi. Già i cartaginesi la esplorarono alla ricerca del filone di ferro, furono poi gli spagnoli a eseguire scavi e, nel XVIII secolo, i Savoia a occuparsene.
Sorradile
Disteso su un dolce declivio con vista sul lago Omodeo e circondato da colline dove si alternano mandorleti, oliveti, vigneti e querce secolari, Sorradile è un centro agropastorale di 400 abitanti del Barigadu, che fa parte dei borghi autentici d’Italia e funge da ‘cerniera’ fra pianura e montagna nella valle del Tirso. In origine era Oiratili, villa donata nel 1156 da Barisone giudice d’Arborea alla moglie Algaburga di Catalogna. Nelle sue vie strette risalta il rosso della trachite che decora case addossate e si accende di molteplici sfumature illuminata dal sole. Due rioni formano il borgo: corte ‘e susu, costruita ‘a terrazze’, da cui vedrai panorami su lago e colline, e corte ‘e josso, più a valle, dove sorge la parrocchiale di san Sebastiano. Costruita nel 1642 su un impianto romanico, è un sontuoso esempio d’arte sacra dei picapedres seicenteschi, che fonde elementi romanici, gotici, rinascimentali e barocchi. Il patrono è festeggiato due volte: il 19 gennaio e a metà maggio insieme a sagra dei dolci di mandorle e Magasinos Apertos. Il 16 gennaio nel sagrato della parrocchiale si accendono i fuochi di sant’Antonio abate. In paese si erge la chiesa di san Michele arcangelo, ricostruita nel XV secolo, in campagna di due suggestivi santuari con rispettive muristenes, che risplendono di luci e colori e risuonano di canti e balli durante le novene. Nella chiesa di santa Maria Turrana, forse del 1573 (ma in origine di metà XIII secolo), si festeggia a inizio settembre con processione che accompagna la statua lignea della Vergine (con volto scuro) nel bosco di sas Iscaleddas, nove giorni di rosari e laudas e s’Issadorzu, ultima notte di festa. A San Nicola (seconda metà del XII secolo), chiesa del villaggio scomparso di Nurozo, si festeggia a metà settembre.
Il territorio è paradiso del trekking: nel Salto di Lochele, tra sughere e roverelle, ammirerai la gola in cui scorre il Taloro, che come il Tirso, confluisce nell’Omodeo, il più grande invaso dell’Isola, ricco di natura e storia. Quando il livello delle acque è basso, ammirerai la foresta pietrificata e vari nuraghi. Su una sua sponda sorge la maggiore testimonianza del III millennio a.C., le domus de Janas di Prunittu, un totale di 15 sepolture pluricellulari, fra cui si distingue la tomba X, detta sa Cresia. Altre necropoli neolitiche sono quelle di sas Lozas, costituita da cinque domus con motivi architettonico-decorativi, e di Isterridorzu, formata da sei ipogei. Notevoli le eredità nuragiche: resti di capanne, un nuraghe trasformato in forno per la cottura di tegole, il monotorre Urasala e un’altra decina di nuraghi sommersi dal lago. Sulle rive spicca il complesso cultuale di su Monte, simile al santuario di santa Vittoria. Una cinta muraria racchiude due strutture minori, tra cui una capanna, e il tempio, di cui vedrai la base, composto da ingresso e camera circolare con al centro una ‘vasca-altare’ e un modellino di nuraghe. L’area è stata ‘vissuta’ da Bronzo antico (1800-1600 a.C.) a età tardo-punica (250 a.C.). Nella mostra dedicata agli scavi di su Monte, ammirerai una riproduzione della vasca-altare, reperti ceramici, litici e bronzi votivi.
Pompu
Si distende nella valle del riu Laccus, ricoperta da lecci, roverelle e sughere, in mezzo a fertili colline tra cui spicca il monte Futtu. Pompu è un paesino dell’alta Marmilla di meno di 300 abitanti, fino al 1970 frazione di Masullas, formato da case basse in pietra con portali e cortili. La predominante attività agricola, con coltivazioni di cereali, vigneti e oliveti, è affiancata dall’artigianato, specie arte della tessitura e produzione di pani (civrasciu, coccoi, lada, pani pintau) e dolci (amaretti, gueffus, pabassinos e pardulas). Il toponimo deriva dal latino pompa, ‘processione’: nell’Antichità era consueto il pellegrinaggio al santuario di Santa Maria di Monserrato, precedente alla nascita di Pompu. Attorno, secondo leggenda, si instaurò una comunità di fedeli, custodi della chiesa e preparatori della pompa, che diede vita al primo nucleo abitativo. Da qui il nome pompesi e quello del paese. Tuttoggi le celebrazioni si svolgono a inizio settembre: il simulacro della Madonna è accompagnato dalla chiesetta al centro del paese, dove spicca la parrocchiale di san Sebastiano, che custodisce le statue settecentesche del patrono, celebrato il 20 gennaio con un grande falò, e di san Giorgio che combatte il drago a cavallo.
Abbondanza d’acqua, fertilità dei campi e vicinanza con l’attuale parco del monte Arci hanno agevolato l’occupazione del territorio dal Neolitico. Al confine con Morgongiori si trova il complesso di Prabanta (3500-1800 a.C.) con un imponente menhir di tre metri e mezzo, simbolo di fertilità, e due domus de Janas, adibite a riti funerari, rispettivamente detti su Furconi, sa Sala e su Forru de Luxia Arrabiosa. Al prenuragico fanno riferimento anche sette stazioni e tre officine per la lavorazione dell’ossidiana, l’‘oro nero’ preistorico, proveniente dai ricchi giacimenti del monte Arci, lavorata e commerciata in tutto il Mediterraneo. Dal massiccio derivano altri rari minerali quali agate, corniole e ametiste. Notevoli le testimonianze dell’età del Bronzo, il nuraghe su Sensu e, soprattutto, a un chilometro e mezzo dal paese, il nuraghe Santu Miali, splendida struttura complessa costituita da torre centrale e bastione quadrilobato con cortile interno. Realizzato con massi squadrati di arenaria, si erge a dominio del territorio, circondato da un villaggio di capanne circolari, abitato sino all’alto Medioevo. I reperti riconducono ad antichi riti: ossa, monete e lucerne testimoniano l’uso del cortile per culti di età tardo-antica. Le lucerne, in particolare, riconducono a divinità, forse Cerere, di sardi romanizzati, quelle decorate con ‘croce e P’, suggeriscono la presenza di comunità cristiane, quelle con la Menorah si rifanno a riti giudaici. La tomba su Laccu de su Meli e resti di abitati testimoniano la dominazione romana.
Canal Grande di Nebida
Imponenti pareti, alte più di cento metri, sprofondano vertiginosamente, sovrastando e custodendo un tratto di mare blu e verde smeraldo. Canal Grande di Nebida, a metà strada fra Masua, frazione di Iglesias, e Buggerru, è una valle lunga e stretta, percorsa dal rio omonimo, che si insinua sino al mare. L’insenatura è caratterizzata da una piccola spiaggia riparata con ciottoli, scogli e sabbia. Acqua cristallina e scarsa affluenza ti faranno sentire nel paradiso del relax.
Ai piedi della falesia si aprono anfratti e cavità. Sul lato occidentale troverai la grotta di Canal Grande, scavata dal mare, parzialmente sommersa e lunga circa 150 metri. Il tunnel attraversa il promontorio da parte a parte, a pelo d’acqua.
La forma ricalca pittorescamente l’inclinazione degli strati rocciosi. La luce che si riflette su falesia e turchese del mare crea un gioco di colori stupendo. Rimarrai incantato anche alla vista dei marosi che, spinti dal maestrale, si infrangono sull’ingresso. Sotto la parete rocciosa a nord, a Punta Cubedda, si apre la grotta delle Spigole, che deve il nome agli effetti della luce che si infrange sul calcare eroso dall’acqua.
Un tempo la valle fu punto d’imbarco per i minerali, percorsa dai mezzi delle miniere: oltre a Canal Grande, nelle vicinanze si trovano Montecani, chiusa da tempo, e Acquaresi, tuttora in attività. Il paesaggio è stato profondamente segnato: le valli sono costellate da scavi a cielo aperto, laverie, pontili, mulattiere, ferrovie, edifici industriali, abitazioni dei minatori e gallerie, alcune scavate appositamente per raggiungere la spiaggia, come a Porto Flavia.
Potrai visitare Canal Grande via mare, partendo da Portovesme, Carloforte o Calasetta, ammirando sul percorso i faraglioni di Pan di Zucchero, le falesie violacee di Fontanamare e Porto Flavia, sino all’incantevole Cala Domestica. O via terra punto con partenza da Masua: un itinerario di trekking lungo ma non difficile segue le tracce del lavoro minerario. Dall’altopiano di Nebida si scende sino alla cala: un panorama impareggiabile.
Nuraghe Santa Barbara - Villanova Truschedu
Con la sua mole, da una collinetta, domina la vallata del Tirso: è uno dei monumenti più grandi e meglio conservati dell’età del Bronzo nel centro Sardegna. Il nuraghe Santa Barbara – omonimo di quello di Macomer – sorge in località Tanca sa Cresia, nel territorio di Villanova Truschedu, piccolo borgo a venti chilometri da Oristano: lo raggiungerai dalla provinciale 9, che passa per l’antico santuario di San Gemiliano, dopo aver attraversato un ponte sul fiume e percorso un breve sentiero a piedi. È un fulgido esempio di struttura ‘a tancato’, costituito da due torri circolari, una maggiore originaria e una minore aggiunta successivamente, raccordate da una cortina muraria che racchiude un cortile, delimitato da pietre conficcate.
Accederai alla torre maggiore attraverso un ingresso architravato e un corridoio che presenta a sinistra una scala elicoidale e a destra una nicchia. Noterai la cura architettonica: i filari di blocchi di basalto e trachite sono sovrapposti ad anelli concentrici che si restringono verso la sommità. La camera interna, di ben sette metri di diametro, è chiusa da una volta a tholos quasi intatta, in cui sono ricavate due nicchie contrapposte. Al centro del pavimento vedrai un focolare, in cima alla parete un’altra scala che conduce a una celletta secondaria. La camera era funzionale a pratiche divinatorie: si può ipotizzare che il sacerdote salisse al primo piano dalla scala principale, in cima entrava in contatto spirituale con la divinità, facendosi pervadere, poi scendeva lungo la scala ‘minore’ per trasferire le volontà divine al fedele. Il Santa Barbara può esser considerato un caso di ‘teofania’: la luce che filtra dal finestrino sopra l’architrave d’ingresso proietta, grazie alla forma dei massi, la figura di una protome taurina (simbolo del dio Toro) dove probabilmente era collocato l’altare. Nel suggestivo effetto luminoso nei giorni di solstizio d’inverno e lunistizio medio-meridionale il popolo nuragico vedeva la manifestazione della divinità. Di fronte alla torre principale c’è l’ingresso a quella secondaria, simile per modalità costruttiva ma molto più piccola, forse un vano di servizio dotato di sei feritoie che permettevano il riciclo dell’aria, usato come forno o fucina per il bronzo. L’edificio è ‘svettato’ in cima, indizio di un cambiamento socio-religioso epocale della civiltà nuragica nell’età del Bronzo finale (fine I millennio a.C.), dovuto anche a un mutamento astronomico, ossia il progressivo inabissamento nel cielo delle stelle del Centauro-Croce del Sud, costellazione verso cui erano orientate le torri nuragiche della metà del II millennio a.C. Era il crollo di un ordine cosmico, in cui avevano creduto per migliaia di anni. I nuraghi furono tagliati in cima per far entrare la luce, atto legato al culto solare del Sardus Pater, che insieme al culto delle acque sostituì la dea Madre, cui invece erano destinati spazi bui. All’esterno del complesso scorgerai le fondamenta di capanne circolari con più vani intorno a cortili, cui si sono aggiunti altri ambienti quadrangolari di epoca romana e altomedievale. Il nome stesso Santa Barbara evoca l’esistenza di un santuario bizantino (o successivo). I reperti del sito sono custoditi nella sala espositiva del nuraghe Losa di Abbasanta. L’area di Villanova è ad alta densità di nuraghi: Crabu, Domingu Porru, Jana, Nuragheddu, Pischina Andria, San Gemiliano, Zoppianu e Ruinas, che è anche il nome del centro storico del paese in ricordo delle rovine di un villaggio romano.
Casteddu Ezzu
Nelle sue torri si scrutava l’orizzonte per avvistare i nemici, tra le sue mura si stringevano accordi, si siglavano trattati, si cercava disperatamente rifugio prima di lasciare l’Isola per sempre. Il castello di Montiferru, noto come Casteddu ezzu, custodisce tra le sue rovine antiche memorie dove la storia sfuma nella leggenda, dove intrighi politici, amori contrastati e tradimenti si sono susseguiti prima di essere abbandonato all’oblio, testimoniando simbolicamente la fine di un’età mitica della storia sarda.
La fortezza, issata su un colle basaltico del massiccio del Montiferru, a poco più di tre chilometri da Cuglieri, fu fatta costruire da Ittocorre, fratello del giudice Barisone II, per controllare meglio il confine meridionale del giudicato di Torres. Di certo esisteva già nel 1196, poiché è citato in un documento, mentre durante il XIII secolo divenne un possedimento dei giudici d’Arborea. Con la conquista aragonese perse il ruolo difensivo, divenendo parte del feudo di Cuglieri, che fu concesso nel XV secolo alla nobile famiglia spagnola dei Zatrillas. Da questo momento il maniero entra a far parte della tormentata vicenda di donna Francesca Zatrillas, contessa di Cuglieri, giovanissima e infelice moglie del marchese di Laconi don Agostino Castelvì. In seguito all’infamante accusa di essere coinvolta, assieme al suo amante, nell’assassinio del marito e nel complotto contro il viceré Camarassa, nel 1668 la contessa si rifugiò nel castello. Quando scoprì che un commissario, alla testa di mille cavalieri, era in arrivo da Oristano per arrestarla, riuscì a scappare in maniera avventurosa raggiungendo la cala di Foghe, per poi imbarcarsi e non fare più ritorno nella sua terra. Il maniero fu requisito dalla Corona aragonese e venduto a un nobile cagliaritano, ma nel giro di pochi anni fu definitivamente abbandonato. Si dice che i ruderi siano infestati da due fantasmi: in seguito a un agguato che colpì la famiglia dell’ultimo proprietario, si salvarono soltanto il figlio più piccolo e la sua balia nascondendosi nei sotterranei e restando fatalmente intrappolati. Di notte sembra che risuonino le ninne nanne che la balia cantava al bambino.
Ancora oggi osserverai le tracce della muratura perimetrale, i resti delle torri di guardia e dei sotterranei, che avevano forse funzione di cisterna e di alloggi per la guarnigione. La struttura aveva pianta longitudinale, realizzata con massi squadrati di basalto e calcare locale, e mattoni negli spazi al livello inferiore. Dalla cima del colle, la tua vista spazierà a 360 gradi sul Montiferru, tra monti, altipiani e valli, fino alla costa. Procedendo verso sud, potrai compiere un altro viaggio nel tempo visitando i resti dell’antica città di Cornus, centro episcopale dell’Isola in età paleocristiana e in precedenza fulcro della resistenza punica contro l’impero romano. Sulla costa bellissimi scenari ti attendono nelle borgate marine di Santa Caterina di Pittinuri, s'Archittu e Torre del Pozzo.
Menhir e dolmen di Corte Noa
Il territorio di Laconi, principale centro del Sarcidano, ha restituito una delle più alte concentrazioni di menhir dell’Isola, disseminati in aree distanti talvolta svariati chilometri. Una delle aree più prolifiche e significative si estende sul pendio di Conca Zerfaliu, rilievo poco distante dal centro abitato, in località Corte Noa. Qui si dispongono sette monoliti, noti in sardo perdas fittas (pietre conficcate), tutti posti in asse tranne uno scivolato a valle. Le loro altezze variano da un metro e venti centimetri sino a due metri e venti. Il loro aspetto è ‘protoantropomorfo’, ovvero dalle fattezze umane appena abbozzate. Le figurazioni sono scolpite a bassorilievo nella trachite con la tecnica della ‘martellina’, la loro origine incerta, così come il significato. Per questi menhir si è ipotizzata una datazione tra IV e III millennio a.C., oppure una prosecuzione dello stesso orizzonte religioso nella seconda metà del III millennio a.C. Probabilmente i monoliti rappresentavano figure sociali rilevanti nell’ambito delle genti prenuragiche, forse antenati, capi, guerrieri, eroi oppure divinità. In zone poco distanti sono singoli o in coppia, oppure disposti in circolo o ancora in linea, come a Corte Noa, a comporre forse anche un confine, un limite tra territori abitati da stirpi diverse e ciascuna con i propri miti.
A circa 200 metri dai menhir in direzione est, salendo leggermente verso la sommità del colle, incontrerai una seconda area archeologica che caratterizza la località: è un dolmen a galleria, la cui tipologia è nota come allée couverte, che in Sardegna rappresenta il precursore delle tombe di Giganti. Il corpo tombale è lungo circa nove metri, delimitato da due file parallele di lastre ortostatiche infisse a coltello. Noterai i resti di una lastra, sulla quale in origine si apriva un portello d’accesso che separava l’ingresso dal vano funerario. La copertura è andata perduta.
Nel sito sono stati rinvenuti pochi resti scheletrici, ma numerosi oggetti riferibili a corredi funerari: punte di freccia in ossidiana, frammenti di vasi ceramici, anellini e spirali. Potrai osservare alcuni dei reperti nel Museum menhir di Laconi, ospitato su due piani dell’ottocentesco palazzo Aymerich. Attraverso le sue sale farai un excursus sull’evoluzione del megalitismo in Sardegna: sono esposti 40 monoliti, provenienti prevalentemente dal Sarcidano, del tipo protoantropomorfo, antropomorfo con tratti somatici e varie statue-menhir, ricche di dettagli fisici e simbolici. Dopo la visita al museo, proseguirai la visita culturale e naturalistica nel suggestivo borgo medievale, patria di sant’Ignazio e meta di pellegrinaggio, e nel parco Aymerich, bellissimo ‘polmone verde’ con una miriade di alberi diversi, una suggestiva cascata e i ruderi del castello Aymerich.
Antica città di Cornus
Da simbolo della resistenza dei punici e sardi alleati contro l’impero romano, sino a centro della cristianità nell’Isola. È la triste storia della città perduta di Cornus, antenata della cittadina di Cuglieri. Ciò che ne resta è incastonato in uno straordinario paesaggio ai piedi del massiccio del Montiferru, tra le borgate marinare di Torre del Pozzo e di s’Archittu, con lo sguardo rivolto sulle scogliere lunari di Santa Caterina di Pittinuri. La visita sarà ancor più bella al tramonto, quando il sole cala sul mare di fronte alla collina di Columbaris, dove sorgono i ruderi paleocristiani, testimoni dell’ultima fase della sua esistenza.
A fondarla in posizione così strategica per il commercio dell’Antichità furono i cartaginesi a fine VI secolo a.C. Ben presto divenne ricca e prosperosa. L’acropoli della città punica sorse nella collina di Corchinas su un preesistente insediamento nuragico attorno al quale si svilupparono i quartieri residenziali e artigianali. Del periodo punico restano solo la cinta muraria e le sepolture, tra le quali risuona ancora l’eco di epiche battaglie per mantenere l’indipendenza, come quelle combattute a Cornus dal condottiero Amsicora, animatore delle rivolte contro i romani da parte delle città costiere insieme alle genti sarde.
Poi venne l’epoca delle persecuzioni dei cristiani da parte dei romani. Costretti a vivere clandestinamente la propria fede, in Sardegna furono giustiziati Antioco a Sulky, Gavino a Turris Libisonis, Simplicio a Olbia, Lussorio a Forum Traiani, Saturno a Caralis ed Efisio, decapitato a Nora nel 303. La svolta nel 313 con Costantino che promulgò la libertà di culto, il cristianesimo divenne presto religione ufficiale dell’impero e Cornus il centro episcopale dell’Isola. Accanto al nucleo abitativo e artigianale si costruirono tre edifici basilicali, uno con abside dove venivano seppelliti, all'interno di sarcofagi in pietra, i fedeli più in vista della comunità, alcuni si trovano ancora nel sito. Davanti al primo edifico, un piccolo ambiente funzionava da battistero e, di lato, gli scavi hanno portato alla luce tombe terragne con copertura di tegole, dette ‘alla cappuccina’, in parte visibili in loco, sepolture dentro anfore e il rinvenimento di mensae per il rito funebre del refrigerium, una sorta di banchetto in onore dei defunti, usanza che sopravvive ancora in tanti territori della Sardegna, dove in memoria dei morti si offre caffè, biscotti e pane fatti in casa.
Nostra Signora de sos Regnos Altos
All'apparenza è una consueta chiesa mononavata, priva di fregi e decorazioni esterne, costruita nel cortile del castello di Serravalle a Bosa, suggestivo borgo medievale nella Planargia. In realtà, la chiesa di Nostra Signora de sos Regnos Altos nascondeva la sua inestimabile ricchezza nelle pareti interne, sotto gli intonaci. E forse qualche segreto continua a custodirlo gelosamente. Uno riguarda la sua fondazione, nessuna fonte, perciò le ipotesi formulate variano tra XII e XIV secolo. I successivi rifacimenti, anch’essi non documentati, alimentano il mistero. È probabile che la chiesa fungesse da cappella palatina all’interno del castello, presenta un’aula rettangolare con abside semicircolare e due ingressi, uno in facciata e uno sul lato nord-est. A fine XIX secolo fu decisa un’estensione dell’aula in direzione est, che comportò la distruzione dell’abside originale. La grande rivelazione, però, venne alla luce durante i lavori di consolidamento nel biennio 1972-73: rimuovendo l’intonaco comparve un sorprendente ciclo di affreschi, che in origine occupava l’intero perimetro dell’edificio e pertanto risulta interrotto a oriente dalla demolizione dell’antico abside. L’opera è stata datata al XIV secolo e attribuita a maestranze toscane fatte pervenire da Giovanni d’Arborea, fratello di Mariano IV. Il dipinto è disposto su due registri, separati da una cornice decorativa e ispirati ai temi della predicazione di san Francesco: tra l’Adorazione dei magi, l’Ultima cena e san Giorgio che uccide il drago, osserverai anche l’unica rappresentazione sarda della leggenda ‘dei tre vivi e dei tre morti’. Le virtù celebrate sono povertà, castità e umiltà, temi cari alla spiritualità francescana.
La chiesa era in principio dedicata a sant’Andrea. Secondo la leggenda popolare, nel 1847 un bambino ritrovò tra alcune macerie del castello una statuetta lignea raffigurante una Madonna. Al manufatto fu dato nome di Nostra Signora de sos Regnos Altos e collocazione in una nicchia della chiesa, dove si trova ancora oggi. La statua della Madonna, cui si deve il cambio di intitolazione, al rapido diffondersi della notizia del ritrovamento, divenne meta di pellegrinaggio e motivo di preghiera e venerazione. I devoti aumentavano continuamente, da qui l’origine della festa che dalla metà del XIX secolo si celebra ogni anno. A metà settembre le strette vie del quartiere medievale di sa Costa si riempiono di addobbi, luci e colori. Spiazzi e vicoli ospitano sos altarittos, piccoli altari ornati con fiori, caratteristici pizzi a filet e statuette della Madonna. Sentirai risuonare i gosos, struggenti canti liturgici, e potrai partecipare a festose tavolate con l’ottimo vino malvasia e dolci tipici.
Oltre al castello medievale, teatro di racconti leggendari e suggestivo punto panoramico sulla vallata, a Bosa potrai visitare le antiche concerie sulla riva sinistra del fiume Temo, passeggiare tra le pittoresche case multicolori nella riva opposta e visitare poco fuori dall’abitato la più antica chiesa romanica in Sardegna, San Pietro extra muros.