Skip to main content

Cerca nel sito

71 - 80 di 305 risultati

Grotta Verde

È l’unico luogo del Mediterraneo dove si conserva un madreporario coloniale,​ da cui derivano le barriere coralline. All’estremità occidentale della baia di P​orto Conte, nel promontorio di Capo Caccia, lo stesso della grotta di Nettuno e di quella sommersa di Nereo, c’è un’altra cavità carsica, la g​rotta Verde – detta anche ‘dell’Altare’ - con rocce calcaree risalenti a 200 milioni di anni fa. Nelle pareti spuntano stalagmiti e stalattiti alte fino a 12 metri e ricoperte di incrostazioni vegetali. Sul fondo affiora un laghetto d’acqua salmastra che riflette la fioca luminosità, restituendo una suggestiva luce verdeggiante. L’acqua ricopre vari ambienti, un tempo asciutti e ‘vissuti’ dall’uomo preistorico, come testimoniano preziosi graffiti: la grotta fu frequentata dal Neolitico antico (VI millennio a.C.) all’era cristiana come luogo di culto e sito funerario.

Grazie a scavi subacquei sono state rinvenute sepolture e corredi, tra cui ceramiche tondeggianti, decorate e colorate di tinte rossastre. Mentre quella di Nettuno si sviluppa in orizzontale quasi a livello del mare, la Grotta Verde si sviluppa a partire da 75 metri di altezza e, addentrandosi in una galleria, scende sin quasi a livello del mare. Il suo ingresso è raggiungibile attraverso una gradinata. Chiusa al pubblico, può essere visitata da esperti ‘speleosub’, accompagnati da guide, in accordo con l’ente parco.

La grotta, infatti, fa parte del parco regionale di Porto Conte, che, inclusa l’area marina di Capo Caccia, occupa cinquemila ettari del territorio di Alghero, il cui centro abitato dista 23 chilometri. La costa, coperta da macchia mediterranea, è fatta di ripide falesie ​a strapiombo sul mare, con piante rare abbarbicate sulle rupi. Mentre nell’entroterra ci sono foreste, come Le Prigionette, un tempo detta ‘dell’Arca di Noè’ perché vi sono stati reintrodotti daini, cavallini della Giara e asinelli. Il parco ha scenari spettacolari come le punte Giglio e Cristallo, Cala della Barca e decine di grotte, sorvolate da volatili rari: su tutti, il grifone. E poi falco pellegrino, poiana e corvo imperiale. Inoltre, si svelano altri complessi archeologici: il nuraghe Palmavera, i siti nuragici di Monte Sixeri e Sant’Imbenia e resti romani, quali la villa di Sant’Imbenia e il ponte sul Calich.

Chiesa di Santa Vittoria - Thiesi

La parrocchiale di Thiesi fu ricostruita in forme tardogotiche ma con i motivi classicistici che nell'ultimo quarto del XVI secolo fecero la loro comparsa nelle architetture dell'Isola. La targa mutila sulla parete esterna della quarta cappella, nel lato N dell'edificio, potrebbe indicare la data di ultimazione della chiesa, riportata come 1590 nelle relazioni ottocentesche dei parroci. L'edificio, come San Giorgio di Pozzomaggiore, che ne rappresenta il modello, ha facciata cuspidata, chiusa tra il contrafforte e il campanile a base quadrata, partita da una cornice con sottile tralcio ondulato e decori geometrizzanti. Il bel portale, con arco a tutto sesto e ghiera ornata da fogliami con fiorone, è affiancato da colonnine con capitello anch'esso a fiorone. Il vistoso architrave è scolpito con edicolette ad arco inflesso fra colonnine lisce e spiraliformi alternate che accolgono, al centro, come una predella di "retaule" catalano, il Cristo alla colonna, affiancato da una serie di santi, fra cui la Vergine, i Santi Pietro e Paolo, Santa Vittoria e San Giacomo, riconoscibile per la mantella e il cappello da pellegrino. In asse col portale il grande rosone con ghiera modanata, raggiera a bacchette piatte e spiraliformi che formano un delicato traforo a tondi e petali. La cornice del coronamento a capanna ha un fregio ad astragali e listelli tipicamente rinascimentale mentre la base del campanile include una formella con l'effige del Crocifisso desunta da quella detta di Nicodemo ad Oristano, ampiamente diffusa in Sardegna verso la metà del Cinquecento. La navata, in pietrame intonacato con le sole membrature a vista, è ripartita in quattro campate voltate a crociera gemmata con archi a sesto acuto. L'abside è voltata a costoloni radiali con contrafforti ai vertici, come nella Santa Giulia di Padria e nel prototipo algherese della cappella delle Stimmate del San Francesco, e ha l'effige della santa patrona nella gemma pendula.

Su Lumarzu

Piccola e ben conservata, costruita con cura sopra una sorgente attiva da millenni e immersa in un paesaggio fuori dal tempo. È lo scenario in cui troverai la fonte sacra di su Lumarzu, al termine di un sentiero che si snoda dal piccolissimo borgo medievale di Rebeccu, ai margini della piana di Santa Lucia, nel territorio logudorese di Bonorva. La struttura è costituita da un atrio e da una celletta, dove si raccoglie l’acqua che sgorga dalla vena sorgiva. L’atrio a pianta rettangolare è lastricato, al suo interno noterai banconi-sedili alle pareti e una nicchia. Il materiale di costruzione è il basalto, ricavato in conci squadrati in tagli regolari e disposti a filari. Si accede alla cella attraverso un lastrone monolitico, sul quale si apre un ingresso a forma di trapezio. La cella ha una copertura a tholos, che termina con un lastrone orizzontale sul quale – non si sa con certezza quando – è stata incisa una croce latina, probabilmente allo scopo di ‘cristianizzare’ un luogo di culto pagano.

La vasca, incavata nella roccia basaltica, è poco profonda e presenta una forma circolare che riflette la struttura della cupola. L’acqua non manca mai e defluisce attraverso una canaletta, che noterai nella soglia della camera interna, per poi scorrere lungo un condotto che si trova sotto la pavimentazione dell’atrio.

La struttura è datata tra Bronzo finale (XIII-X secolo a.C.) e prima età del Ferro (X-VIII a.C.) ma fu frequentata almeno fino alla tarda Antichità, come testimoniano le monete rinvenute in loco, risalenti al IV secolo d.C. La presenza di alti muri laterali, della nicchia e dei banconi nelle pareti dell’atrio hanno fatto ipotizzare che il tempio non fosse solo un luogo riservato ai sacerdoti e che i banconi non servissero –almeno non esclusivamente – a deporre le offerte, ma che forse essi fossero dei sedili e che a Su Lumarzu si svolgessero altri tipi di rituali. Forse addirittura ordalie, cioè ‘prove sacre’, nelle quali il giudicato doveva dimostrare la sua innocenza di fronte alle divinità, sottoponendosi a prove con l’acqua o con il fuoco.

La visita alla fonte è immancabilmente associata a quattro passi tra le stradine acciottolate di Rebeccu. Ti affascinerà l’atmosfera inquieta tra case abbandonate, vicoletti, una piccola chiesa e un cimitero sconsacrato. A proposito di chiese, a un chilometro dal borgo sorge il santuario romanico di San Lorenzo di Rebeccu, costruito in conci di calcare bianco e basalto nero. A navata unica e copertura in legno, risale alla seconda metà del XII secolo, come testimonia un sigillo del giudice Barisone II ritrovato al suo interno.

Villanova Monteleone

Federico Fellini ambientò alcune scene de ‘La Bibbia’ in una sua valle, alla sorgente del Temo. Pur ergendosi a 600 metri d’altezza, a 16 chilometri dal mare, Villanova Monteleone ha la peculiarità di avere vicino il lago del Temo e amministrare un lungo tratto di costa con ‘perle’ come la spiaggia di Poglina, distesa di sabbia chiara e impalpabile che si immerge nel mare turchese, accanto alla chiesa della Speranza. Il paese, popolato da duemila e 300 abitanti, si trova nell’entroterra algherese, fra Planargia di Bosa e Logudoro turritano. Dalla strada che la collega ad Alghero, detta Scala Piccada, un tempo teatro di una cronoscalata di rally, godrai del panorama sulla Riviera del Corallo.

Il borgo è rinomato per arte tessile (tappeti e tendaggi) e intreccio di cestini. Al centro, nell’ottocentesco Palatu ‘e sas iscolas, visiterai il museo etnografico sa Domo Manna. Accanto sorge la cinquecentesca parrocchiale di San Leonardo da Limoges (celebrato l’11 giugno) in stile gotico-aragonese, rifatta in forme neo-gotiche nel 1789. Conserva due altari lignei del XVIII secolo. Altri luoghi di culto nel paese sono la seicentesca chiesa della Madonna del Rosario e l’oratorio di santa Croce (XVI secolo). A tre chilometri dall’abitato, tra alberi secolari, sorge il santuario di Nostra Signora di Interriors, eretto nel XVI secolo. La facciata è stata modificata nel XVIII e il campanile poggia su un porticato ad archi, dove prima c’erano le cumbessias. Vi si svolgono le feste in onore della Natività della Vergine (8 settembre) e di san Giovanni battista, a fine agosto, celebrazione legata all’origine di Villa nova di Monteleone. Il villaggio, fondato a su Zentosu da abitanti di Monteleone Rocca Doria, nel 1582 subì un’invasione barbaresca: i superstiti traslocarono in un’area più interna (Santa Maria), dove ricostruirono il paese, quelli catturati furono salvati dall’esercito del marchese Boyl di Putifigari. A inizio estate assisterai alla mostra-mercato del cavallo anglo-arabo-sardo, a inizio agosto alla sagra della pecora.

Nel territorio, ricco di sorgenti, spicca il monte Minerva, spettacolare bastione con sommità piatta, derivato da un vulcano spento, oggi coperto da una foresta. Alle sue falde sorge una testimonianza preistorica: un sepolcreto con otto domus de Janas. La maggiore eredità neolitica (a partire dal 3500 a.C.) è però la necropoli di Puttu Codinu, costituita da nove ipogei funerari con corridoio d’ingresso, anticella, camera funeraria e celle laterali. Nelle pareti sono scolpite corna di toro, simbolo di prolificità, e decorazioni che riproducono i tetti delle capanne. Spiccano le tombe VIII e IX. Nel bosco di sughere e lecci del monte Cuccu spunta un parco archeologico che racchiude un complesso dell’età del Ferro (900-800 a.C.), formato dal nuraghe trilobato Appiu con villaggio di circa duecento capanne, un altro nuraghe monotorre e una tomba di Giganti con due dolmen. Vicini anche un circolo megalitico e un tempio a megaron. Altri imperdibili edifici coevi sono la tomba di Giganti di Laccaneddu e i nuraghi sui monti Lua e sa Rughe.

Nuraghe Palmavera

L’architettura della costruzione testimonia la straordinaria abilità dell’affascinante e misteriosa civiltà nuragica. Il complesso di Palmavera si trova sul promontorio omonimo a un chilometro e mezzo dal mare, all’interno del parco di Porto Conte, nel territorio di Alghero. È costruito con blocchi di calcare e arenaria, composto da un corpo centrale con due torri e corredato da un antemurale e dalle capanne di un villaggio: oggi se ne contano meno di 50, in origine si stima fossero tra 150 e 200.

Venne edificato in più fasi. Alla prima (XV-XIV sec. a.C.) risale la torre principale, alta otto metri con diametro di dieci, all’interno della quale c’è una camera centrale con copertura a tholos. Una scala conduceva a piano superiore e terrazzo. In una fase successiva (IX sec. a.C.) fu aggiunta un’altra torre, collegata alla prima con un cortile e un corridoio. Venne realizzata, inoltre, la grande capanna delle riunioni. Al suo interno, il rotondo sedile del capo. Tra i vari arredi dell’abitazione, è stato ritrovato un modellino di nuraghe, un reperto d’arte preistorica caratteristico di altri complessi della Sardegna (a Mont’e Prama ne sono stati ritrovati ben 16). Oggi dentro Palmavera ammirerai una copia del modellino, mentre l’originale è conservato al museo G.A. Sanna di Sassari. Durante la terza fase di realizzazione (IX-VIII sec. a.C.), fu eretto un muro perimetrale con quattro torri. Dopodichè il villaggio fu distrutto da un incendio e ripopolato in epoca punica e romana.

Attorno a Palmavera si snoda un percorso praticabile in mountain bike, attraverso cui proseguire il viaggio nel tempo. Nella baia di Porto Conte – per i Romani portus Nympharum - potrai visitare un altro sito nuragico: Sant’Imbenia (XV-VIII sec. a.C.), il più antico scalo marittimo fenicio dell’Isola, sede di traffici col mondo orientale. Rimase al centro delle rotte commerciali di fenici, etruschi e greci fino al VII secolo. A breve distanza, ecco i resti di una villa romana, costruita per l’otium del proprietario, con attorno un latifondo. È costituita da residenza con stanze decorate e ambienti di servizio. A nord ci sono i resti di un impianto termale.

Ossi

Adagiato a oltre 300 metri d’altezza, s’immerge in un paesaggio dove colline e vallate verdi si alternano a bianchi affioramenti rocciosi. Ossi è un paese di quasi seimila abitanti del Coros, parte nord-occidentale del Logudoro, vicino a Sassari, che ha mantenuto salde originaria lingua logudorese e tradizioni antiche. Varie leggende ne raccontano la nascita: nell’alto Medioevo era costituito da un nucleo di case intorno a una chiesa romanica. Dopo le dominazioni dei Malaspina e dei giudici di Torres e d’Arborea, ci fu il passaggio alla Corona d’Aragona: i feudatari si susseguirono nei secoli, ma la realtà quotidiana del villaggio rimase invariata, scandita dall’attività nei campi, oggi coltivati in prevalenza a oliveti e vigneti, in un territorio fertile e irrorato da riu Badde, riu Pizzinnu e fresche sorgenti.

Al centro del paese a inizio XVII secolo sorse la parrocchiale di san Bartolomeo, a navata unica voltata a botte, che attualmente conserva preziose statue lignee (datate tra XVI e XIX secolo). In suo onore si svolge, a fine agosto, la celebrazione più sentita, con processione in abiti tradizionali. Nell’abitato troverai anche le chiese di santa Croce e di santa Vittoria, nata nel XII secolo e rimaneggiata nel XIV e nel XVII secolo. Le celebrazioni sono rispettivamente a metà settembre e metà maggio. Il seicentesco palazzo baronale, in origine forse appartenuto alla famiglia Guyò, è l’edificio di maggior pregio e ospita il museo etnografico. Il percorso espositivo si snoda tra sale e ambienti quotidiani e rurali, con attrezzi del lavoro agricolo e degli antichi mestieri artigianali. In campagna meritano una visita Nostra Signora di Silvaru (XII secolo) e la chiesa romanica di Sant’Antonio, costruita in pietra calcarea vicino a siti punico-romani e alla necropoli di Mesu ‘e Montes, la più importante testimonianza archeologica ossese, usata tra Neolitico finale e Bronzo medio. È scavata su un costone roccioso a dieci chilometri dal paese e comprende 18 domus de Janas pluricellulari. Per architettura si distinguono le tombe I e II con 12 celle a testa, dove compaiono varie decorazioni, il soffitto riproduce un tetto a doppio spiovente e nel pavimento è scolpito un focolare ad anello; e le tombe III, IV e XVI, tutte ‘a prospetto architettonico’, con stele centinata al centro dell’esedra. Contemporanee o quasi a Mesu ‘e Montes, sono le necropoli di Noeddale, in periferia, dove spicca ‘la tomba della Casa’, altro esempio di domu de Janas pluricellulare (con undici ambienti), di s’Isterridolzu e di Littos longos. La necropoli di s’Adde ‘e Asile e la tomba megalitica di Ena ‘e Muros sono immediatamente precedenti l’età nuragica, cui sono riferibili una decina di torri visibili (e molte crollate) e il villaggio di sa Mandra ‘e sa Giua, luogo di numerosi ritrovamenti.

San Saturnino di Usolvisi

Si erge isolata su un poggio vicino alle rive del fiume Tirso, sorta sui resti di un nuraghe trilobato presumibilmente a metà XII secolo, distante sei chilometri da Bultei, sul cui territorio ricade, e sei da Benetutti: le parrocchie di entrambi i paesi del Goceano ne rivendicano alla diocesi di Ozieri la pertinenza ecclesiastica. La chiesa di San Saturnino deve la sua fama alle sue essenziali forme architettoniche romaniche e anche al valore paesaggistico e archeologico del sito dove sorge. La prima notizia sul santuario sancti Saturnini de Usolvisi risale al 1163, anno in cui fu donata ai monaci camaldolesi - che avevano costruito anche la stupenda basilica della Santissima Trinità di Saccargia - da Attone, vescovo di Castra. Un’iscrizione paleocristiana su pietra, rinvenuta nel 1957, farebbe riferimento all’età bizantina, lasciando supporre l’antichità del luogo sacro, centro spirituale di un borgo (poi scomparso), Usolvisi, sviluppatosi in continuità di insediamento con le vicine terme romane di Aquae Lesitanae. Nella piana di San Saturnino sono state censite otto sorgenti di acque termominerali dalle proprietà benefiche e curative, in parte sfruttate dagli attuali stabilimenti termali. Oltre ai ruderi del nuraghe, recenti scavi nella piana hanno portato alla luce anche resti prenuragici e rovine romane.

Il perfetto paramento murario del piccolo edificio è stato realizzato in conci di trachite perfettamente squadrati. Il loro colore rossastro conferisce al monumento un particolare aspetto, accentuato dalla posizione leggermente sopraelevata. L’uso della pietra rossa locale e l’arte nella disposizione dei blocchi sono chiari segni della ‘mano’ di maestranze toscane, forse le stesse che operarono nella vicina Nostra Signora di Mesumundu ad Anela, donata anch’essa ai camaldolesi dal vescovo Attone. La lineare facciata romanica è rinforzata negli spigoli da robuste paraste angolari. Al centro si apre il portale architravato sul quale è impostato un arco a sesto rialzato, stesso schema nel portale laterale. Tre monofore, due centinate a tutto sesto nei fianchi e una nella curva absidale illuminano l’unica navata, anch’essa realizzata in cantoni di pietra vulcanica provenienti da cave locali e coperta da capriate lignee. Un campanile a vela, che forse in origine era sulla facciata, oggi sta sul fondo dell’edificio, sopra l’abside.

Nella chiesa ‘contesa’ tra le parrocchie di Benetutti e Bultei viene celebrata una messa in onore del santo il 30 ottobre. Riguardo alla disputa, iniziata tra fine XIX e inizio XX secolo, già lo storico Giovanni Spano nel 1870 parlava di “un villaggio detto Bulterina la cui parrocchia era detta chiesa di San Saturnino”. Tutto iniziò con la morte di un parroco di Bultei che recandosi a celebrare messa nella chiesa, perse la vita guadando il Tirso. Da allora la chiave della chiesa è stata consegnata al parroco di Benetutti, dall’altra parte del fiume per salvaguardare i parroci di Bultei e permettere l’apertura in sicurezza. Da allora le chiavi sono rimaste a Benetutti, senza nessun atto vescovile, né allora né oggi.

Santa Croce - Usini

Le sue origini sono millenarie, le fasi costruttive molteplici, ha ben quattro nomi e non è chiaro quando fu edificata, nonostante sia citata in un documento antico. Sono numerosi gli elementi che rendono particolare la chiesa di Santa Croce di Usini, a iniziare dalle denominazioni che si sono succedute: anticamente era Santa Maria d’Usine, poi localmente fu conosciuta come Madonna de s’Ena Frisca, ovvero della ‘sorgente fresca’, per la presenza di una fonte nelle vicinanze, e anche come Santa Maria del Cimitero, in quanto eretta nell’area in cui sorgeva l’antico luogo di sepoltura di Usini. Infine, nel XIX secolo, prese l’attuale nome dalla confraternita che ne assunse la reggenza.

L’edificio sorge lungo la via che, provenendo da Sassari, conduce al centro del paese, un percorso particolarmente frequentato. Precisamente la chiesa è posta poco oltre la metà del tragitto che separava il monastero sassarese di San Pietro di Silki e l’abbazia di Nostra Signora di Paulis, oggi in rovina, nel territorio di Ittiri. Il titolo risulterebbe menzionato nel condaghe di san Pietro di Silki: il riferimento a una ‘chiesa di Santa Maria’ porterebbe la datazione ai primi decenni del XII secolo. Altri invece propendono per collocarla temporalmente tra XIII e XIV secolo. Dell’impianto romanico originale, mononavato ed edificato in pietra calcarea, potrai ammirare la facciata e parte dei fianchi decorati con cornice e archetti pensili a sesto acuto. La cornice prosegue in facciata delimitando il frontone. Anche qui compaiono gli archetti, sotto il frontone e – con forma allungata – sotto gli spioventi. A una seconda fase costruttiva risalgono il transetto e le finestre, mentre in seguito si aggiunsero torre campanaria, sagrestia e una serie di cappelle. L’abside presenta una forma quadrangolare, con volta a botte. All’interno osserverai altari lignei policromi in stile barocco e una particolare finestra a destra dell’altare maggiore, decorata con archi trilobati tipici dello stile gotico-catalano.

Proseguirai il tour delle bellezze architettoniche di Usini con la parrocchiale di Santa Maria Bambina, ‘scrigno’ di preziosi arredi, le dimore ottocentesche Casa Diaz e Casa Derosas e, a otto chilometri dal paese, la chiesa medievale di San Giorgio di Oliastreto. Non meno interessanti le tracce preistoriche: al Neolitico recente risale la necropoli a domus de Janas di s’Elighe Entosu - detta anche ‘delle sette stanze’ – dove spicca la tomba V, decorata con particolari architettonici a imitazione di una capanna prenuragica. Nel territorio, rinomato per la produzione di vini cagnulari e vermentino, scoprirai anche nuraghi e tracce di epoca romana.

Necropoli di Santu Pedru

Erano ‘dimore per l’aldilà’, con decorazioni create a imitazione delle abitazioni dei vivi, per mantenere un legame simbolico con gli antenati e concedere loro un riposo eterno in ambienti ‘familiari’. Dieci domus de Janas compongono la necropoli di Santu Pedru, scavate durante il IV millennio a.C. nel tufo trachitico di una collina della Nurra, a dieci chilometri da Alghero, ‘capitale’ della Riviera del Corallo. Le sepolture collettive nuragiche occupano il versante orientale della collina, sormontata da un nuraghe con villaggio di capanne e restarono in uso, anche con finalità differenti, fino all’alto Medioevo.

Le tombe sono di dimensioni ragguardevoli e pluricellulari, ossia composte da più vani preceduti da un corridoio d’ingresso, il dromos. Spicca per complessità e aspetto monumentale la tomba I, detta anche ‘dei vasi tetrapodi’, in quanto vi furono rinvenuti, in perfetto stato di conservazione, due vasi ceramici a quattro piedi. Dall’ingresso, che si apre sul ciglio stradale, percorrerai un lungo dromos e giungerai all’anticella semicircolare. Qui noterai tracce di pittura in ocra rossa in prossimità di un’apertura decorata con architrave e cornici che conduce alla cella principale. Da questa sala si diramano altri nove ambienti. Nel vano principale osserverai una falsa porta, simbolo del transito verso l’aldilà, due pilastri e un portello con protomi taurine. Colonne, zoccoli e altri elementi architettonici fanno ipotizzare che la tomba I fungesse anche da santuario.

Le altre tombe presentano caratteristiche simili, in particolare la tomba III, con un numero di vani secondari addirittura maggiore. Mentre la cella primaria della tomba V, mai completata, contiene un bancone. Noterai tracce di pittura rossa anche nelle tombe VI e VIII. La tomba IV occupa la parte più alta del pendio e ha una particolarità: fu riadattata attorno al VI secolo d.C. a chiesa rupestre, dedicata secondo tradizione ai santi Pietro e Lucia. La struttura presenta due absidi contenenti piccoli altari e una croce scolpita a destra dell’ingresso. Separata dal resto del complesso è la tomba X, che si trova sul lato opposto della strada, quasi di fronte alla tomba I. Nella cella principale, a pianta rettangolare, ci sono due pilastri, una falsa porta e la traccia di un focolare scolpito in rilievo sul pavimento. Le domus de Janas dallo straordinario valore decorativo ed estetico era prerogativa di Nurra algherese e Logudoro turritano: a circa 15 chilometri da Santu Pedru c’è la celebre necropoli di Anghelu Ruju, una delle più estese dell’Isola; mentre a cinque chilometri sorge una delle più spettacolari domus finora esplorate, s’Incantu, la tomba dell’architettura dipinta, ‘fiore all’occhiello’ della necropoli di monte Siseri a Putifigari. Pittura in chiaroscuro, false porte dipinte di rosso, lesene, focolari e altorilievo di coperture a travi caratterizzano cella e anticella, con continuo riferimento alle corna taurine. Poco più a nord, a Olmedo, visiterai la fortezza di Monte Baranta, con una muraglia megalitica lunga quasi cento metri.

Monte Lerno

Un’immersione totale nella natura più pura e selvaggia, in un fiabesco paesaggio montano lungo le pendici di un imponente rilievo. Il complesso forestale di Monte Lerno, appartenente al demanio regionale, si estende per più di 2800 ettari nel territorio di Pattada, a partire da 400 metri d’altitudine fino a punta Campanile, vetta del monte, a quota 1093 metri. La fanno da padroni i boschi di lecci, ma a far loro concorrenza ci sono querce da cui si ricavano sugheri di ottima qualità, come in località Trataxis. Addentrandoti nella foresta troverai anche roverelle, agrifogli, ginepri e tassi, mentre il folto sottobosco ospita erica, corbezzolo, fillirea e cisto. La foresta è stata ripopolata da specie protette, se sarai fortunato potrai ammirare esemplari di cervo sardo e muflone, oltre che una moltitudine di cinghiali e lepri.

Nei laghetti artificiali di sa Pedrosa, sa Jone e sos Vanzos ammirerai colonie di germani reali, mentre sulla vetta granitica del massiccio nidifica l’aquila reale e potresti essere sorpreso anche dal volo di falchi, sparvieri e astori. Grazie al patrimonio vegetale e faunistico la foresta è una meta prediletta di escursionisti e fotografi naturalisti, che esplorano anche i dintorni del lago Lerno, bacino artificiale situato alla base del monte. Da qui partono vari sentieri percorribili a piedi, in bici o a cavallo. In località Iscialzos è stata attrezzata una comoda area di sosta e picnic.

Sulle sponde del lago alla natura potrai abbinare l’archeologia, qui sorge il nuraghe complesso omonimo, costruito in blocchi di granito e composto da torre centrale e due torri secondarie collegate da un bastione. Il mastio conserva la copertura a tholos, mentre i resti di altre strutture adiacenti sono state ricondotte a età bizantina. Nei dintorni vedrai anche i resti di una chiesa medievale, appartenente allo scomparso villaggio di Lerron, dal quale deriva il nome del monte.

Monte Lerno è un nome noto anche agli appassionati di motori: è una delle tappe del rally Italia Sardegna, considerata tra le più affascinanti grazie ai tornanti e ai salti: spicca lo spettacolare Micky’s Jump, il preferito dai fotografi al passaggio delle auto, divenuto immagine iconica della gara mondiale. Immancabile, infine, una visita al centro di Pattada, per scoprirne le tradizioni artigiane ed enogastronomiche: il paese è famoso per la resolza pattadesa, coltello a serramanico con lama in acciaio e manico di corna di muflone, per i manufatti in legno, per formaggi, paste, pani e dolci.