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Santa Sofia

Retaggi romanici, schemi rinascimentali, decorazioni gotiche e richiami barocchi. La chiesa di Santa Sofia, parrocchiale di San Vero Milis, paese di confine tra Campidano e Montiferru, uno dei centri più rinomati per la produzione di vernaccia, deve tanto del suo fascino all’originale mix di stili costruttivi, per di più impiantati su una preesistente struttura, di cui non esistono tracce documentali. Un’iscrizione posta sullo stipite destro dell’arco trionfale nell’altare maggiore riporta come data di costruzione il 1604, a opera del genovese Agostino Careli e del cagliaritano Francesco Escanu. Si trattò probabilmente della ricostruzione di una chiesa romanica forse del XIII secolo, della quale rimane come unica traccia un tratto di paramento murario sul prospetto posteriore, a filari di conci alternati in arenaria e basalto: la precedente chiesa dunque doveva essere bicroma.

Osservando la facciata noterai subito la commistione tra vari stilemi architettonici: i tre ingressi sono incorniciati da modanature che seguono uno schema rinascimentale, mentre in asse col portale centrale ammirerai un ampio rosone cigliato in trachite rossa, che rappresenta una persistenza di motivi decorativi di gusto gotico. Il coronamento, invece, mostra un lunettone che segue il profilo del rosone, riconducibile ai prospetti di matrice barocca. Il campanile, completato a inizio XIX secolo, è a canna quadrata, alto circa quaranta metri e termina con un cupolino ‘a cipolla’, anch’esso di ispirazione barocca. L’aula è a navata unica, voltata a botte, che termina con un presbiterio riccamente decorato con marmi policromi. Ai lati della navata si aprono sei cappelle, tre per lato, con copertura a padiglioni lunettati. Gli arredi sono altrettanto preziosi: otto argenti liturgici databili tra XVI e XVIII secolo, una croce argentata tardogotica e un reliquiario. In una nicchia osserverai la statua della Madonna di Spagna, mutilata e bruciata durante la guerra civile spagnola e gettata in mare per evitarne la distruzione. Fu rinvenuta nel 1937 da un pastore sulla spiaggia di is Arenas, portata inizialmente a Narbolia e infine collocata nella parrocchiale di San Vero Milis. L'evento è ricordato ogni anno a maggio con processioni, cerimonie e festeggiamenti.

Oltre alla vernaccia, San Vero Milis deve la sua fama all’arte dell'intreccio, con creazioni di cestini e canestri di giunco, alle coltivazioni di mandarini e alla bellezza del suo litorale. Attorno a Capo Mannu si distendono i suoi ‘gioielli’ costieri, da su Pallosu, dove vive una colonia felina, e sa Rocca Tunda, oasi di relax protetta da dune. A sa Mesa Longa farai il bagno in una piscina naturale delimitata da un tavolato di arenaria affiorante a qualche decina di metri dalla riva. Infine, a sud, acque trasparenti e sabbia candida caratterizzano Putzu Idu e s’Arena Scoada, dall’atmosfera quasi tropicale.

San Francesco - Oristano

È uno dei simboli dell’arte neoclassica ottocentesca in Sardegna, anche se il suo primo impianto gotico, che sopravvive in un piccola porzione di facciata, risale sino al XIII secolo. La chiesa di San Francesco d’Assisi sorge nel centro storico di Oristano, a pochi passi dalla cattedrale di Santa Maria Assunta (il duomo), officiata dai frati francescani che risiedono nell’annesso monastero dal 1253. Contestualmente fu costruita per la prima volta la chiesa, demolita a inizio XIX secolo e risorta pochi decenni dopo su progetto dell’architetto cagliaritano Gaetano Cima. Il nuovo tempio fu eretto secondo i canoni del classicismo purista, aperto al culto nel 1847.

La facciata è scandita da tre portali e preceduta da un pronao a imitazione di un tempio greco, costituito da due pilastri e quattro colonne con capitelli ionici che reggono il timpano. Una cupola semisferica corona l’edificio. L’interno è a pianta centrale, intervallato da due cappelle per lato, con profonda abside semicircolare. Sull’altare della prima cappella a sinistra ammirerai un capolavoro d’arte lignea: il Crocifisso policromo di Nicodemo (XV secolo). L’opera esprime la straziante agonia, tipica dell’espressionismo tedesco (poi spagnolo) e fu prototipo di opere simili in varie chiese isolane. La sacrestia, oltre a preziosi arredi sacri e al reliquiario di San Basilio, conserva la statua in marmo di San Basilio di Nino Pisano (1368) e il pannello di Pietro Cavaro raffigurante San Francesco che riceve le stimmate (1533). Il dipinto è parte del retablo del santo Cristo, le cui altre tele sono esposte all’Antiquarium Arborense, museo oristanese che conserva anche i reperti dell’antica città di Tharros, e nella pinacoteca nazionale di Cagliari.

Accanto, nel convento di San Francesco, noterai altre strutture murarie risalenti all’impianto duecentesco della chiesa, in particolare, un tratto di paramento in filari bicromi di conci di vulcanite e arenaria, che ospita una monofora con centina ogivale. All’ultimo quarto del XIII secolo risalgono il portale del chiostro e le larghe luci disposte nel prospetto con modanature gotiche. Il monastero fu testimone di decisivi momenti storici del giudicato d’Arborea: nel refettorio dei frati erano solite riunirsi le massime Autorità arborensi, come in occasione della firma del trattato di pace (1388) tra Eleonora e il re catalano-aragonese Giovanni I il Cacciatore. Dal complesso di San Francesco andrai alla scoperta di edifici e monumenti del centro storico di Oristano, come palazzo Corrias Carta e maestosa torre di Mariano.

Bonarcado

Sorge alle falde della catena del Montiferru, in un territorio in parte ammantato da boschi di querce, in parte coltivato a oliveti, vigneti, e frutteti, specie ciliegi, non distante dalla penisola del Sinis. Bonarcado è un borgo di circa 1600 abitanti a 25 chilometri da Oristano, che lega nome e fama a due ‘gioielli’ di architettura romanica: il santuario e la basilica di Nostra Signora di Bonacatu, nome sardo del paese che deriva da Bonarcanto o Bonacranto, a sua volta corruzione del greco Panachrantos (Immacolata). I due edifici formano un complesso che si affaccia su una deliziosa piazza del centro storico e sono sedi del più antico culto mariano dell’Isola. Il santuario bizantino è uno dei primi edifici cristiani dell’Isola: l’impianto è forse del V secolo, successivi interventi del VII-VIII, quando probabilmente si era già insediato un nucleo abitativo. Fu costruito riusando parte di precedenti terme romane, delle quali è venuto alla luce un tratto di pavimentazione a mosaico.

Al ‘tempio’ originario furono aggiunte due facciate, una a ovest nel XIII secolo, decorata con archetti pensili e bacini ceramici, e una a nord nel 1933 in stile neoromanico. Al suo interno ammirerai un quattrocentesco bassorilievo raffigurante la Madonna. Di fronte al santuario sorge la basilica, eretta dai monaci camoldalesi nel 1146 in pietra basaltica scura che la rende particolarmente suggestiva. L’edificio fu rimaneggiato a metà del secolo successivo da maestranze arabe provenienti dalla Spagna e ampliato nel 1700 con una seconda navata e alcune cappelle. Nell’ambito dell’abbazia monastica fu redatto il condaghe di santa Maria di Bonarcado (XII-XIII secolo), uno dei più antichi documenti in sardo che riporta notizie storiche ed economico-sociali, in un periodo di floridezza del borgo, sotto il giudicato di Torres. La venerazione per la Madonna si esprime pienamente con le celebrazioni di metà settembre. Ad esse è associata la sagra del torrone, prodotto con l’ottimo miele della zona. Rinomati sono anche olio extravergine e ciliegie, cui a giugno è dedicata una sagra. Mentre a inizio agosto è tempo della sagra del bovino. Altre feste sono il 19 gennaio in onore di san Sebastiano, con processione a cavallo e pariglie lungo le strade del centro, e a inizio febbraio per san Romualdo.

Fertilità e abbondanza d’acqua hanno attirato insediamenti stabili sin dal Neolitico, testimoniati da varie domus de Janas. All’età del Bronzo risalgano nuraghi, dei quali tantissimi del tipo ‘a corridoio’, associati a tombe di Giganti, in gran parte issati nell’altopiano al confine con Paulilatino: Campu Scudu, Livandru, Scovera, Serra Crastula, sas Losas, Serra Ollastu e Ziligherto. Sono immersi in boschi di querce, dove spuntano anche valle e cascata sos Molinos, uno dei luoghi più spettacolari del Montiferru, vicina alla sorgente di Pranos, rinomata per l’acqua minerale.

Siamaggiore

Siamaggiore è un paese di quasi mille abitanti della parte settentrionale del Campidano, caratterizzato da un territorio pianeggiante e altamente produttivo, che coincide n gran parte con la bassa valle del Tirso, il maggior fiume dell’Isola. Le produzioni più cospicue sono grano e orzo, cui si aggiungono coltivazioni di legumi e ortaggi. Tra febbraio e marzo potrai partecipare e degustare pietanze tipiche alla sagra del carciofo, richiama ogni anno dal 1992 migliaia di persone. Dalla viticultura si ottiene una buona produzione di vernaccia. Emblema della valorizzazione agricola del territorio è la moderna azienda della borgata di Pardu Nou, area bonificata, un tempo, durante le esondazioni del Tirso, usata per difendersi dalle incursioni saracene nel XVI-XVII secolo.

Il toponimo deriverebbe da sa ia majore, via maior romana, forse da ricollegare alla strada da Tharros alle terme di Forum Traiani (Fordongianus). Il villaggio fu fondato probabilmente nel corso del XI secolo. Durante il giudicato d’Arborea Sia-majore era un centro prospero e molto popolato, faceva parte della curatoria del Campidano maggiore, amministrato da un majore eletto annualmente. Il giudice Mariano II vi possedeva estese proprietà di vigneti e orti, ne donò una parte considerevole al fedele ministro oristanese Mariano Mameli (1282).

Il grazioso e curato centro storico è articolato in architetture rurali tipiche campi danesi: case basse con cortili ampi e strade strette, in gran parte costruite in ladiri. Di particolare rilievo la parrocchiale di san Costantino, esempio di architettura tardo-barocca settecentesca. La festa per il patrono è il 23 Aprile. Da non perdere, a un chilometro dall’abitato, la chiesa campestre di origine romanica di san Ciriaco, celebrato a inizio agosto. Mentre a Pardu Nou sorge il santuario di santa Maria.

Palazzo Boyl

Il rosso-ocra della sua facciata svetta di fronte a un giardino di prati all’inglese e alte palme e domina lo scenografico centro storico di Milis, paese del campidano di Oristano, insieme al prospetto gotico-catalano della parrocchiale di san Sebastiano. Ogni dettaglio è curato nei minimi particolari nello splendido Palazzo Boyl: in passato tutto doveva essere perfetto per le visite dei sovrani sardo-piemontesi e dei loro prestigiosi ospiti. L’edificio, gioiello architettonico di prevalenti forme neoclassiche piemontesi, ha una storia quasi millenaria. Nacque come monastero – citato nel condaghe di santa Maria di Bonarcado - di cui restano evidenti tracce e da dove verosimilmente erano dirette le coltivazioni dei primi agrumeti di Milis, distanti allora cento metri. Divenne casa signorile del XIV secolo e fu totalmente ricostruito nel XVII: la vecchia struttura trecentesca fu inglobata nella nuova.

Fino agli ultimi decenni di quel secolo appartenne alla famiglia Vacca, sinché una loro discendente non sposò il marchese Vittorio Pilo Boyl di Putifigari, ingegnere militare, autore, insieme al fratello Carlo, degli ampliamenti e ammodernamenti della villa. Il nome dell’edificio deriva proprio dai Boyl, piemontesi imparentati con i Savoia, che ne mantennero la proprietà sino al 1978. Nel corso dei secoli il palazzo subì altre trasformazioni: galleria d’ingresso e prospetto neoclassico sono le parti più risaltanti. In facciata appaiono finestre sormontate da mensole leggermente aggettanti. Cornici e cornicioni bianchi contrastano con il rosso pompeiano delle pareti. Al centro, leggermente sporgenti, spiccano quattro lesene sormontate da capitelli ionici. In mezzo si apre un grande portale, sopra il quale si vedrai un balcone di ferro battuto e, ancora più in alto, una terrazza belvedere. In cima ammirerai quattro busti in marmo bianco, allegoria delle stagioni. A impreziosire ulteriormente il prospetto un grande orologio bianco. All’interno il fascino antico è intatto: nelle ampie sale di rappresentanza del piano inferiore spiccano bellissimi mosaici pavimentali e arredi che rievocano la nobiltà dei marchesi Boyl. Al piano superiore ammirerai il suggestivo museo del costume e del gioiello sardo, esposizione etnografica di stoffe, abiti e ornamenti che ripercorrono due secoli di storia. Nel cortile è stato ricavato un anfiteatro, che ospita eventi. Dopo il tramonto, con le prime luci dei lampioni accese e dalle finestre del museo, scorgerai il cielo azzurro terso che s’imbrunisce, la piazza e le palme mosse dal vento: l’atmosfera ti porterà alla mente illustri personaggi che qui soggiornarono. Il palazzo, oltre che dimora estiva (e saltuaria) dei marchesi, fu residenza occasionale di Alberto La Marmora, dei re Carlo Felice e Carlo Alberto, di letterati italiani, come Grazia Deledda e Gabriele D’Annunzio, e stranieri, tra cui Honorè de Balzac e il ‘Valery’, bibliotecario del re di Francia.

Penisola del Sinis

Un lembo di Sardegna che infonde la sensazione di continuità fra terra e mare. Nell’area protetta della penisola del Sinis e dell’isola di Mal di Ventre, istituita nel 1997 ed estesa circa 26 mila ettari nel territorio di Cabras, un variopinto campionario di ambienti terresti e lacustri degradano dolcemente verso spiagge e scogliere. A sud, la fascia costiera parte dal promontorio di Capo san Marco, si sviluppa con le rocce e la sabbia morbida di san Giovanni di Sinis e la sabbia quarzosa di Mari Ermi, Is Arutas e Maimoni, fino alle falesie di su Tingiosu. Poco sotto Capo Mannu, limite a nord, troverai le Saline e la spiaggia di Putzu Idu. I granuli di quarzo delle ‘perle costiere’ sono originati dal disfacimento delle rocce: una storia iniziata 600 milioni di anni fa a Mal di Ventre.

L’isola, insieme allo scoglio del Catalano, collegati da un tavolato granitico colorato dal corallo, sono un ‘santuario della natura’, dove nidificano volatili marini e vivono tartarughe e cetacei. Fondali sabbiosi e praterie di posidonia sono popolati da pesci, molluschi e crostacei: paesaggi sommersi ideali per snorkeling e fotografia subacquea, anche grazie alla presenza di relitti di ogni epoca: navi romane, spagnole e del XX secolo, tra cui un’oneraria di 36 metri affondata tra 80 e 50 a.C. con duemila lingotti di piombo.

Nelle zone ‘aperte’ sono consentite navigazione e immersioni. Nell’immediato entroterra le dune di sabbia lasciano spazio agli stagni di Cabras, ecosistema palustre tra i più grandi e produttivi d’Europa, popolato da fenicotteri rosa. Nell’area marina potrai praticare pescaturismo su barche artigianali o navigare a vela sulle rotte dei fenici. Il Sinis, grazie al maestrale, è ideale anche per kyte e wind surf tutto l’anno. Oppure farai esperienze rilassanti a contatto con la natura, a piedi e in bici.

Per ripercorrere preistoria e storia del Sinis, dirigiti nell’estremità meridionale, a Tharros: fu villaggio nuragico, colonia fenicia, porto cartaginese, città in età romana, capoluogo in età bizantina e, infine, prima capitale del giudicato d’Arborea. Nel museo di Cabras, assisterai a una delle scoperte archeologiche più straordinarie: le statue dei Giganti di Mont’e Prama (VIII secolo a.C). Da visitare anche l’ipogeo di san Salvatore, meta da sempre di una singolare processione a inizio settembre: la Corsa degli Scalzi, una delle feste più suggestive dell’Isola.

Collinas

Il nome Collinas indica chiaramente il paesaggio composto da dolci rilievi attorno al borgo. Le fu assegnato nel 1863, su iniziativa di Giovanni Battista Tuveri, allora sindaco, nonché personaggio più illustre del paese: fu giurista, filosofo e parlamentare. A lui è dedicato il museo cittadino allestito nell’ex monte granatico. In precedenza il villaggio si chiamava Forru, creando disguidi postali con la vicina Villanovaforru. Oggi è conosciuto anche come il ‘paese dei presepi’: ogni dicembre viene indetto un concorso per la loro realizzazione in paese.

Collinas, borgo di 900 abitanti, sorge in Marmilla, in un territorio ricoperto da boschi di leccio e da coltivazioni di cereali e viti e abitato da epoca prenuragica. Di età nuragica ci sono giunti i resti di vari complessi, tra i quali il nuraghe Concali, il quello di Genn’e Maria e la tomba di Giganti di Sedda sa Caudeba. Di epoca romana, interessanti sono i ruderi di una stazione termale.

Tra le chiese del centro abitato si segnalano quella restaurata (nel 1997) di san Rocco - Collinas è uno dei pochissimi paesi sardi a venerare il santo - e quella di san Sebastiano, forse la prima parrocchiale. Il santo è festeggiato a fine gennaio con l’accensione di un falò in suo onore e offerte di pane, formaggio, vino e dolci. Mentre a metà maggio c’è la festa di sant’Isidoro con solenne processione, cui partecipano gruppi in costume e cavalli addobbati. A tre chilometri dal paese, in una vallata di pioppi, olivastri e lentischi, sorge la chiesetta campestre di santa Maria Angiargia (o Bagnaria), che, secondo tradizione, risalirebbe al XII secolo e in origine apparteneva ai benedettini. Nelle vicinanze del santuario si notano ruderi di un antico villaggio e di un monastero. A cento metri si trovano i resti delle antiche terme romane e un antico pozzo sacro, su Angiu (il bagno), alto due metri, munito di gradini, che permettono di toccare il fondo, e di nicchie sulle pareti. Secondo leggenda, un contadino sprofondò col carro nel terreno dove sorge la fonte, dopo vari tentativi di numerose persone, fu rimosso: lì apparve la sorgente del pozzo. In una delle nicchie spiccava un simulacro della Madonna, che fu posto sul carro. Il giogo, però, non volle saperne di avanzare, anzi, corse furiosamente indietro verso il bosco: era la volontà di Maria. Nel bosco il popolo eresse il tempio di santa Maria Angiargia. La festa in suo onore, la più importante di Collinas, si celebra a inizio settembre.

Sedilo

Nel cuore dell’Isola, sull’altopiano di Abbasanta, affacciato sul suggestivo scenario del lago Omodeo, sorge il millenario borgo di Sedilo. Centro agropastorale del Guilcer, popolato da oltre duemila abitanti e caratterizzato da antiche case di pietra, è al centro di rilievi coperti da lecci, querce, sughere e macchia mediterranea, con itinerari da percorrere a piedi, in bici o a cavallo. Vicino all’Omodeo (da perlustrare in canoa) prosperano pioppi e salici e si affaccia il parco archeologico di Iloi. Al suo interno, un nuraghe trilobato, cui è appoggiato un corpo di forma trapezoidale, un villaggio e due tombe di Giganti (del Bronzo medio-recente), una con corpo tombale absidato, corridoio coperto ed esedra con bancone-sedile. All’età del Bronzo risale anche la fonte di Puntanarcu. Il territorio fu abitato già prima, come testimonia la necropoli di Ispiluncas, composta da ben 33 domus de Janas (dieci visitabili), distinte in due gruppi distanti 200 metri. Alcune sepolture sono pluricellulari: la tomba II è articolata in 13 ambienti. A età romana risalgono cippi, urne e un tratto di strada lastricata. Mentre è bizantino il culto di san Costantino imperatore, che contraddistingue il paese. Sacro e profano confluiscono nel rito arcaico de s’Ardia, spettacolare corsa a cavallo per santu Antine, che rievoca la battaglia di Ponte Milvio (312 d.C.): Costantino vinse dopo che, secondo leggenda, gli apparve una croce con scritto in hoc signo vinces. Al tramonto del 6 e all’alba del 7 luglio, la folla riempie la vallata, anfiteatro naturale dell’evento. Un centinaio di cavalieri discende senza freni il chilometro dal paese (da su Frontigheddu) al santuario di san Costantino, medioevale, poi ricostruito in stile gotico-catalano nel 1600. La corsa è guidata da prima pandela (bandiera), altri due cavalieri (seconda e terza pandela) e scorte che rappresentano l’esercito dell’imperatore. Mentre gli altri cavalieri che inseguono e cercano di sopravanzare le pandele sono l’esercito pagano di Massenzio. All’evento è dedicato il museo dell’Ardia, dove scoprirai la secolare tradizione. Mentre nel museo del territorio conoscerai i reperti dei siti archeologici di Sedilo e ambiente, flora, fauna e prodotti. All’interno del santuario ammirerai sculture nuragiche, tra cui una perda fitta (forse divinità femminile), quadri, arazzi, argenti e foto. Nelle muristenes, casette per pellegrini, c’è il museo di san Costantino, dove è illustrato il culto. Altre chiese del paese sono la parrocchiale di san Giovanni battista, ricostruita a inizio 1700, la chiesa con architettura spagnola di sant’Antonio abate e quella di san Basilio, per il quale il primo settembre si svolge la corsa degli asinelli.

Siddi

Un viaggio tra preistoria e natura in un piccolo borgo incastonato tra dolci colline coltivate a cereali, ulivi, vigne, mandorli e orti. Siddi, oggi popolato da circa 600 abitanti, ha forse origine romana, lungo la via del grano, da Usellus a Calaris. La prima attestazione documentale risale al 1346, indicato come Silli, forse dal latino volgare casilli, ‘gruppo di piccole case’. Il paese è caratterizzato da strette vie su cui si affacciano case ‘a corte’, con mura in ladiri, portali monumentali e colorati murales. In casa Steri, risalente al Seicento, è allestito il museo delle tradizioni agroalimentari, che documenta consuetudini, saperi e sapori delle comunità della Marmilla. Per gustare le prelibatezze locali, l’occasione giusta è ad agosto, con il festival regionale del buon cibo Appetitosamente. Altra esposizione da non perdere è il museo ornitologico della Sardegna, unico nel suo genere, con una collezione di centinaia di uccelli, stanziali e migratori, che popolano gli habitat sardi. All’ingresso del borgo troverai la chiesa di San Michele arcangelo, del secondo XIII secolo: è il santuario romanico più piccolo dell’Isola, con pianta a due navate e un’unica abside. Particolari sono i rilievi scolpiti nell’architrave del portale che riproducono cinque misteriose figure antropomorfe di cui una capovolta (forse Lucifero, Adamo ed Eva, san Michele e Dio): un’opera unica nel panorama scultoreo medioevale sardo. Vicina sorge la settecentesca parrocchiale della Visitazione di Maria Vergine.

Dal nome del paese deriva la Giara di Siddi, detta anche su Pranu, un altopiano basaltico con pareti scoscese di 300 metri. L’ambiente è incantato e l’aria pervasa da essenze e aromi di macchia mediterranea. Oltre cento specie arboree (molte rare) e boschi di lecci ricoprono il parco sa Fogaia, che coi suoi sentieri si addentra nel versante orientale de su pranu. Qui spicca il nuraghe ‘a corridoio’ più interessante della zona. Tutta la Giara conserva un inestimabile patrimonio archeologico: l’eredità più antica è un frammento di anellone del Neolitico medio. A epoca di poco successiva risale la domu de Janas di Scaba ‘e Arriu. L’età nuragica è la più documentata: una ventina di nuraghi (semplici, complessi e ‘a corridoio’), villaggi e, soprattutto, la tomba di Giganti di sa Domu ‘e s’Orku, uno straordinario (e ben conservato) esempio di architettura funeraria nuragica (1500-1300 a.C.), realizzato in blocchi basaltici. Resti insediativi, ceramiche e monete testimoniano il passaggio punico. L’epoca romana ha lasciato sepolture, resti di abitato (a Cuccuru Bingias, Sitzamus e Tradoriu), monete e fini ceramiche. Di età bizantina è una fibbia bronzea decorata di cintura (VII secolo).

Porto Flavia

Lo vedi sbucare a mezz’altezza, magicamente sospeso nell’aria a richiamare un romanzo d’avventura. È Porto Flavia a metà tra uno scalo commerciale e una avveniristica opera architettonica che rivoluzionò l’ingegneria dei primi del Novecento. Si erge nella frazione di Masua, nel territorio di Iglesias, ed è l’estremità più visibile di un complesso di gallerie sotterranee che terminano in una costruzione intagliata nella parete rocciosa. Il nome gli venne dato da Cesare Vecelli, il ‘padre’ della miniera che la chiamò come sua figlia (Flavia). La struttura venne utilizzata come sistema di imbarco per trasportare direttamente sul mare i pesantissimi minerali che venivano calati sulle imbarcazioni alla fonda sul mare turchese.

La spiaggetta di Porto Flavia, con una verde pineta circostante, sorge al fianco dei resti della struttura mineraria. Da qui il panorama ti rapirà verso il blu profondo del mare, fino a trattenere lo sguardo sul bianco candido dei possenti faraglioni di Pan di Zucchero. Un monumento naturale di 132 metri forgiato dal passare del tempo e dall'opera congiunta di vento e mare. Lo scoglio di roccia calcarea emerge dalle profondità e si staglia di fronte alla punta di Is Cicalas come un gigante marino a dominare la costa. E proprio qui si nasconde il lido caratterizzato dal contrasto cromatico con la verde pineta circostante. È una meta balneare molto amata dagli appassionati di immersioni subacquee per le mille bellezze nascoste sotto il mare.

Tutta la costa di Iglesias ha un fascino selvaggio, con cale e spiagge incantevoli. Fra le meraviglie non perderti anche porto Paglia e Nebida, altra piccola frazione di origine ‘mineraria’. Le miniere hanno segnato profondamente la vita dell’Iglesiente. Oggi sono patrimonio di archeologia industriale del parco Geominerario della Sardegna, riconosciuto patrimonio dall’UNESCO. A Masua potrai esplorarle dal vivo, nel museo dell’Arte Mineraria e in quello delle Macchine di Iglesias ne ripercorrai l’evoluzione. Il cammino minerario di santa Barbara, nei 400 chilometri di itinerario - 24 tappe da percorrere a piedi o in mountain bike – associa due cardini del Sulcis: miniere e devozione. La partenza è da Iglesias, che non a caso in spagnolo significa ‘chiese’ e che tra le attrazioni più famose annovera la celebrazione dei riti della Settimana Santa.