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San Gregorio - Solarussa

Quasi come una fortezza, è cinta da una muraglia con scenografico portale d’ingresso. Inoltre, la caratterizza una particolare precisione nella lavorazione dei conci, forse prova del fatto che vi lavorarono maestranze attive in una delle più solenni chiese romaniche sarde. La chiesa dedicata a San Gregorio magno si trova nella periferia est di Solarussa, in cima a una collinetta. L’area fu abitata fin da età nuragica, mentre alcune tracce sotto il piano di calpestio risalgono ad epoca romana – forse un impianto termale –, ed è accertato che la chiesa, datata alla seconda metà del XII secolo, si innesti su un preesistente santuario altomedievale, in quanto il pavimento copre le fondamenta di un’aula absidata a navata unica. Tecnica di taglio e posa dei conci in basalto e trachite rossastra fa pensare che vi furono impegnati gli stessi costruttori che realizzarono la chiesa di Santa Maria di Bonarcado. Non a caso, nel suo condaghe è menzionata più volte una domo de Solarussa.

Dapprima noterai la cinta che circonda l’edificio, dove domina un portale con ampio arco a sesto ribassato e un campanile a vela con due luci, accessibile tramite una scalinata laterale. In asse con il primo portale, a pochi metri di distanza, si trova la chiesa. Come la sua ‘antenata’, ha una pianta a navata unica absidata. La facciata è semplice, con due particolarità: la prima è la bicromia dell’arco di scarico che sormonta l’ingresso, data dall’uso di conci di basalto scuro e vulcanite chiara; la seconda è rappresentata dall’incavo in un concio al vertice del prospetto, destinato probabilmente ad accogliere un bacino ceramico policromo, andato perduto. Sul lato meridionale noterai un secondo portale, che ripete esattamente la struttura dell’ingresso principale. L’interno riceve luce da cinque monofore a doppio strombo, due per lato e una nell’abside. La copertura è in legno a vista diviso in tre capriate, con manto esterno a coppi.

Nonostante non sia il patrono del paese - che è invece San Pietro, festeggiato a fine giugno -, le celebrazioni per la figura del santo pontefice rappresentano il principale evento religioso di Solarussa. La festa si svolge il martedì successivo alla seconda domenica di ottobre: durante la processione dalla parrocchiale alla chiesetta risuonano is gogius, canti devozionali sulla vita del santo e per chiedere la grazia per la comunità. Nella processione sfilano gruppi folk e cavalieri. È anche occasione per assaggiare i prodotti tipici, in particolare la pregiata vernaccia, protagonista di una sagra a settembre. La festa è preceduta da una novena, al termine della quale si accende un grande falò nel sagrato della chiesa.

Area dell'ossidiana

Il sito è caratterizzato da una superficie ripida con consistenti cumuli di ossidiana. Nel complesso vulcanico del Monte Arci il territorio di Pau è l'unico che abbia consentito di documentare attraverso resti archeologici, un centro di lavorazione della materia nel luogo di estrazione. In particolare la vasta area di Sennixeddu ha riportato grandi concentrazioni di ossidiana e prodotti di scheggiatura, su una superficie di oltre 20 ettari. A circa 350 m dall'area di lavorazione di Sennixeddu è stato individuato un potenziale sito di insediamento.

Antica città di Tharros

Insediamento nuragico, emporio fenicio, fortezza cartaginese, urbs romana, capoluogo bizantino e capitale arborense: a Tharros scoprirai oltre due millenni di storia. Le rovine dell’antica città, fondata nell’VIII secolo a.C. e abbandonata nell’XI d.C., sorgono nella propaggine meridionale della penisola del Sinis, nel territorio di Cabras. Il ‘museo all’aria è un anfiteatro naturale affacciato sul mare e delimitato dall’istmo di capo san Marco e dai colli della borgata di San Giovanni di Sinis e di su Murru Mannu (grande muso), in cima al quale troverai la testimonianza più antica, i resti del villaggio nuragico, abbandonato prima dell’avvento dei fenici. Resti di due nuraghi spuntano anche sul promontorio di san Marco, un altro è ipotizzato alla base della torre di san Giovanni, una delle tre – oltre a ‘torre vecchia’ e Turr’e Seu - erette a difesa del golfo dalla Corona spagnola (XVI secolo).

Le eredità fenicie sono due necropoli e il tophet, santuario cimiteriale dove erano deposte le urne contenenti i resti incinerati di neonati e animali sacrificati. Con l’avvento cartaginese, all’incinerazione fu affiancata l’inumazione, furono riusate le sepolture a fossa fenicie e aggiunte tombe ‘a camera’, segnalate da steli con immagini delle divinità Baal Hammon e Tanit. Provengono dai sepolcri migliaia di manufatti dei corredi funebri: ceramiche, gioielli, amuleti, scarabei. Sotto il dominio punico i quartieri di Tharros, tra cui quello artigianale specializzato nella metallurgia del ferro del Montiferru, si distendevano ‘a terrazze’ sulla collina di San Giovanni, da cui partivano le mura difensive della città fortificata. Prima della conquista romana (238 a.C.) furono eretti edifici civili e di culto, tra cui il tempio ‘delle semicolonne doriche’, rampa gradonata decorata a rilievo nella parte alta con semicolonne doriche e lesene. Il tempio fu in parte smantellato in età imperiale e sorse un nuovo santuario, uno dei tanti dei quali i romani costellarono la città. Nel tempietto K, costituito da portico e altare con cornice a gola egizia, spicca il reimpiego di due blocchi con incise lettere semitiche, pertinenti a un probabile (preesistente) ‘tempio delle iscrizioni puniche’. Affascinante è il tempio a pianta di tipo semitico, delimitato in tre lati su quattro da pareti di roccia. Al centro c’era un recinto a colonne (peristilio), il cui pavimento è decorato da un mosaico policromo. Il tempio di Demetra deve il nome a un ambiente dove furono rinvenute due terrecotte riferite alla dea. Ti colpirà il tempio tetrastilo, affacciato sul mare: sono in piedi due colonne (ricostruite), del resto rimangono le basi. Molti ‘pezzi’ dei templi furono reimpiegati, per esempio nella chiesa di Santa Giusta.

In età repubblicana fu avviato un processo di rinnovamento che culminò in età imperiale. L’urbs fu trasformata secondo schemi ortogonali: percorrerai strade ‘regolari’, lastricate e canalizzate per il deflusso, espressione di un articolato sistema fognario. Passeggiando su cardo e decumano maximi immaginerai vita e attività di duemila anni fa. Nel massimo splendore (III d.C.) sorsero tre impianti termali, a ridosso del mare. Nell’alto Medioevo parti delle terme divennero sepolture bizantine, altre furono annesse a un complesso paleocristiano comprendente un battistero (V-VI d.C.) e un santuario, forse l’ecclesia sancti Marci. Di età imperiale ammirerai anche parti di acquedotto, in particolare il castellum aquae, serbatoio di distribuzione in centro città, ‘impermeabilizzato’ e suddiviso in tre navate da pilastri. Le aree funerarie romane erano più ampie dei loro predecessori, con tombe ‘alla cappuccina’, inumazioni in anfore, mausolei, sarcofagi e altri tipi di sepolture.

Prima che la sede episcopale fosse trasferita a Oristano (1071), divenuta capitale del giudicato d’Arborea, Tharros subì una lenta decadenza, collegata a incursioni saracene e conseguente spopolamento. Sin dal XVII secolo i corredi funerari delle necropoli furono preda di cercatori di tesori. Non meno deleteri furono alcuni scavi ufficiali del XIX secolo. Nei decenni successivi il saccheggio continuò: per fortuna, il ‘bottino’ finì in parte al British Museum di Londra, parte è nei musei archeologici di Cabras e Cagliari e all’Antiquarium arborense di Oristano. Dopo gli scavi scientifici ottocenteschi, le indagini ripresero a metà XX secolo. Non si sono mai fermate, regalando continuamente (e tuttora) nuove scoperte.

Nuraghe Losa

Il nome originario, nurache ‘e losas, significa ‘nuraghe delle tombe’, e fa riferimento alle urne cinerarie romane scavate nella roccia affiorante ai margini dell’area in cui sorge. La sagoma inconfondibile del nuraghe Losa si erge sull’altopiano basaltico di Abbasanta, a cinque chilometri dal piccolo centro dell’Oristanese. Camminando attorno alla sua possente struttura, solida e piatta – con pianta a triangolo equilatero - noterai scorci prospettici che ricordano l’alta prua di una nave. È una delle espressioni più notevoli e caratterizzanti dell’architettura nuragica, sede di scavi archeologici fin dal XIX secolo, e si distingue per disegno organico, compattezza dei volumi e raffinatezza delle tecniche murarie. Intorno si conservano i resti di un esteso insediamento immerso nel verde della macchia mediterranea, testimone delle millenarie vicende del sito, da età nuragica a epoca romana, quando fu usato, per scopi funerari, e poi sino all’alto Medioevo (VII-VIII secolo).

Il complesso, interamente costruito con grossi blocchi di basalto, è costituito da un nuraghe trilobato, risalente al Bronzo medio (XV-XIV secolo a.C.), un antemurale e resti di un villaggio di capanne circolari, realizzati tra Bronzo recente ed età Del Ferro (XIII-IX a.C.). All’ingresso, scoprirai che l’enorme massa compatta - segreto dello straordinario stato di conservazione - contiene anche vani spaziosi. Non il cortile scoperto, però, caratteristico della gran parte dei nuraghi complessi, forse sostituito nelle funzionalità da spazi esterni scoperti. Accederai attraverso un ingresso principale, sopraelevato rispetto alla campagna, e da un corridoio rettilineo raggiungerai l’originaria torre centrale troncoconica (mastio) e le due torri laterali. Mentre quella posteriore è accessibile da un ingresso secondario. Avanzerai attraverso i chiaroscuri del corridoio, respirerai l’odore delle pietre coperte dal muschio, rivivrai le sensazioni della mitica età nuragica.

Superata l’alta soglia, troverai tre anditi che portano ad altrettante camere coperte a tholos (falsa cupola). Il mastio - oggi alto 13 metri, in origine di più - ha una struttura ‘classica’: ampia camera di base con tre nicchie sistemate a croce. Una rampa a spirale sale in senso orario alla piccola camera superiore, un tempo raggiungeva anche la sommità. Attorno sono disposte le tre torri minori con camere alte e strette, unite tra loro dalla muratura che fascia l’intera struttura. Al loro interno ci sono anche tre pozzetti usati come magazzini per riserve alimentari o altri materiali. Torre principale e bastione trilobato sono circondati da una lunga e poderosa muraglia a forma ovale, provvista di porte e due torrette sporgenti con pareti traforate da feritoie. L’antemurale si distende sul retro, a nord e ovest, ricomprendendo uno stretto cortile. Alla base della torretta occidentale c’è una cisterna. Davanti all’ingresso della facciata, invece, visiterai un imponente edificio rotondo, presumibilmente con funzioni importanti - forse capanna delle riunioni - come suggeriscono due ingressi contrapposti, due ampie nicchie, quattro stipetti e cinque feritoie. Del vastissimo insediamento attorno, esteso per tre ettari e mezzo, solo una piccola parte è stata scavata. Dai reperti rinvenuti si calcola che il complesso fu abitato da fine del Bronzo medio e in parte abbandonato a inizio età del Ferro. In vari punti osserverai resti di abitazioni nuragiche e, soprattutto, case di epoca tardo-punica, romana repubblicana e imperiale, tardo-romana e bizantina.

A distanza dal sito abitativo sorgevano i monumenti funerari e di culto: 120 metri a sud-ovest della muraglia, ammirerai una tomba di Giganti costruita con blocchi perfettamente lavorat, in gran parte smantellata durante i millenni; mentre 400 metri a nord-est era stata individuata una fonte (forse) sacra, in blocchi squadrati, non più visibile.

Villanovaforru

Si adagia su dolci colline, a circa 50 chilometri da Cagliari. Villanovaforru è un paesino di poco più di 600 abitanti, importante centro culturale, salito alla ribalta a metà del Novecento, in seguito alla scoperta del nuraghe Genna Maria e all’apertura del museo archeologico a esso collegato. Il complesso nuragico domina il territorio sulla cima di una collina. Presenta un torrione centrale (del XV secolo a.C.), circondato da un bastione di quattro grandi torri unite da spesse mura che racchiudono un cortile con pozzo parzialmente scavato nella roccia. A sua volta l’antemurale quadrilobato è racchiuso da una cinta muraria a sei torri angolari. All’interno e all’esterno di essa c’è il villaggio, costruito in più fasi.

Le capanne più evolute presentano strutture complesse a pianta centrale, con vani decorati di varie forme. Nell’età del Ferro (IX-VIII a.C.) il complesso fu usato per scopi votivi, come testimoniano gli oggetti rinvenuti. I preziosi reperti degli scavi (riferibili a sette secoli di frequentazione) sono custoditi in un’elegante palazzina ottocentesca, un tempo monte granatico, oggi museo. Espone anche i ritrovamenti di altri siti di età prenuragica, nuragica, punica, romana e tardoantica provenienti da villaggi, necropoli, tombe monumentali dei paesi della Marmilla che formano il consorzio sa Corona Arrubia. All’interno rivivrai le fasi di vita quotidiana dei popoli nuragici e l’evoluzione dei riti sacri, sino al culto di Demetra e Core e a quelli bizantini.

La struttura dell’abitato di Villanovaforru è seicentesca: il paese fu fondato sotto la dominazione spagnola. Tante le case costruite secondo tradizione agricola del Medio Campidano. Gli abitanti di Villanovaforru sono particolarmente devoti a santa Marina di Orense, martire spagnola che si festeggia due volte l’anno (lunedì e martedì dopo Pasqua e a metà luglio). Le si rende omaggio e lode in processione, con i coggius, canti liturgici, Ave Maria e rosario cantati in sardo. Le donne anziane coltivano appositamente il basilico, che in occasione della festa viene benedetto e posto accanto alla statua della santa. Tutti i fedeli ne prendono un ramoscello per la propria casa. Is frabbicas de Santa Marina, un film del regista Piero Tatti, è incentrato sulla particolare usanza. Altre celebrazioni sono il 20 gennaio per san Sebastiano, a metà maggio per sant’Isidoro e a inizio ottobre per san Francesco, cui è dedicata la parrocchiale.

San Giacomo - Nughedu Santa Vittoria

Una tappa del Cammino di Santu Jacu, percorso spirituale che tocca i luoghi devoti a San Giacomo maggiore, sorge nel piccolo borgo di Nughedu Santa Vittoria, e rivela solo pochi indizi della sua storia: due date incise all’interno, mentre un’altra fonte è andata perduta. Fascino e mistero aleggiano in egual misura nella chiesa parrocchiale dedicata a San Giacomo, in stile gotico-aragonese, costruita utilizzando la trachite rossa. Vittorio Angius trascrisse il contenuto di un’epigrafe, allora conservata nel coro e oggi scomparsa, la quale menzionava il nome del ‘procuratore’ e l’anno 1634, probabilmente riferito alla fine dei lavori di costruzione dentro il santuario. La stessa data si rileva nella chiave di volta del presbiterio, mentre in facciata, all’interno di uno scudo che campeggia nel timpano del portale, si legge la data 1674. Per alcuni, però, si tratterebbe di una ricostruzione di un edificio già presente nel XVI secolo.

La chiesa domina un’ampia piazza. Nel prospetto ammirerai un grande rosone, simile a quello delle chiese di San Gavino a Gavoi, Santa Maria della Guardia ad Ardauli e San Mauro di Sorgono. La facciata, di forma quadrata, presenta un terminale piano con merlature a tridente. Un cornicione dentellato separa l’ordine superiore, dominato dal rosone, e quello inferiore, nel quale il portale è sormontato da un timpano curvilineo spezzato. Vari elementi tipici dell’architettura gotico-aragonese abbelliscono l’aula mononavata, scandita da archi a sesto acuto. Le cappelle laterali sono voltate a botte, la capilla mayor quadrangolare, più bassa e stretta della navata, si collega all’aula tramite un arco a sesto acuto. Il presbiterio, invece, ha una volta a crociera.

Il santo è celebrato il 25 luglio, il giorno dopo si festeggia Sant’Anna: generalmente si svolge una processione unica. La parrocchiale del paese affacciato sul lago Omodeo accoglie anche i pellegrini in viaggio seguendo il Cammino di Santu Jacu, lungo la direttrice che verso nord conduce a Porto Torres. Le campagne nughedesi ospitano un altro luogo di culto in cui l’ospitalità verso i pellegrini si rinnova da secoli: circa un chilometro e mezzo a nord dell’abitato sorge la chiesa campestre di San Basilio, anch’essa probabilmente seicentesca. Accanto si dispone una fila di muristenes, alloggi in pietra destinati ad accogliere i novenanti.

Nughedu Santa Vittoria merita una visita anche per il patrimonio archeologico e naturalistico: da non perdere le domus de janas della necropoli sas Arzolas de Goi, decorate con incisioni e pitture, e l’oasi di Assai: in un bosco popolato da cervi, cinghiali e daini, sorge un museo faunistico, ospitato in un antico rifugio di pastori.

San Paolo di Milis

La sua facciata bicroma rivela una lunga storia fatta di varie fasi costruttive, di alternanze di ‘maestri’ e di riferimenti ad altri santuari romanici sardi. La chiesa di San Paolo si erge tra gli agrumeti del borgo di Milis, i quali vantano una tradizione antichissima: forse già dal XII secolo furono impiantati dai monaci camaldolesi. Allo stesso ordine probabilmente si deve anche la costruzione dell’edificio, il cui primo impianto viene fatto risalire attorno al 1140. Il titolo di Sanctu Paulu de Miili è documentato in una preziosa fonte, il condaghe di Santa Maria di Bonarcado, datato XII-XIII secolo. Tra le sue particolarità, spicca l’uso di ben quattro diversi tipi di pietra: calcare, trachite, basalto e tufo. La struttura, con le lunghe paraste angolari e uno zoccolo a scarpa che corre per tutto il perimetro, rimanda alla prima fase costruttiva del XII secolo, a opera verosimilmente delle stesse maestranze attive nel cantiere della basilica di Santa Giusta. La parte superiore della facciata, a filari alternati di calcare dorato e di basalto scuro, viene invece attribuita a maestranze operanti nell’area dell’attuale Arborea durante il primo quarto del XIII secolo. Forse gli stessi ‘impresari’ edificarono la coeva chiesa di San Palmerio a Ghilarza, anch’essa a filari alternati di conci chiari – in questo caso di trachite – e di basalto scuro.

La chiesa di San Paolo è slanciata verso l’alto grazie ai pilastri angolari e alle lesene che spartiscono tre arcate cieche. In quella mediana si apre il portale, architravato con arco di scarico a tutto sesto. La stessa arcata centrale ospita un oculo modanato, mentre nelle due laterali noterai due rombi gradinati, elemento presente anche nel timpano della basilica di Santa Giusta. La pianta è longitudinale, a croce commissa, con un corpo di fabbrica aggiunto al braccio nord del transetto e disposto parallelamente all’aula principale. La copertura è realizzata a capriate lignee nella navata principale e con volte a crociera nei bracci del transetto e nel corpo aggiunto.

All’interno osserverai un pregiato altare barocco in legno policromato, con tre nicchie ospitanti le statue dei santi Giovanni, Pietro e Paolo. Quest’ultima è protagonista di una leggenda: si ha notizia di un miracolo che sarebbe avvenuto nel 1675, alla vigilia della festa di San Paolo. Il simulacro, stando alle cronache del tempo, avrebbe trasudato sangue. Per asciugarla furono usati dei copricalici, oggi conservati nella parrocchiale di San Sebastiano. Infine, tre dipinti cinquecenteschi, attribuiti a pittori catalani, rappresentano San Paolo, la Crocifissione e una Madonna con Bambino.

La chiesa è ospitata dentro il cimitero di Milis, dove risiedono tombe di soldati italiani e tedeschi: nel 1943 essi caddero vittima di un bombardamento inglese, il cui scopo era colpire il campo di volo militare, considerato fino ad allora ‘invisibile’ in quanto nascosto dagli aranceti. A pochi passi dal cimitero si estendono i giardini Pernis-Vacca e La Vega, mentre a poche centinaia di metri ammirerai il palazzo Boyl, dimora storica, oggi sede del museo del costume e del gioiello sardo

San Pietro di Zuri

Si innalza possente col caratteristico colore rosso-ocra della roccia lavica di cui è costituita. La vedrai imponente davanti a te, con il grande campanile a vela poggiato su una struttura a navata unica e pianta rettangolare. È la chiesa di san Pietro, che si trova nel paesino di Zuri, frazione di Ghilarza, nel territorio storico del Barigadu. Chiesa e villaggio nascondono una storia nella storia, avvolta da un alone di mistero. Sorgevano dove oggi c’è il più importante invaso artificiale sardo, il lago Omodeo, realizzato a partire dal 1924, grazie allo sbarramento del fiume Tirso, e oggi splendido sito paesaggistico da esplorare in canoa. L’edificio sacro è stato smontato e ricostruito concio per concio a monte del lago, insieme alle nuove abitazioni del villaggio, mentre il ‘vecchio Zuri’ giace sott’acqua, salvo riapparire nei periodi più siccitosi.

Il lago fa da incantevole sfondo alla San Pietro odierna: un’opera di ingegneria, frutto di ristrutturazioni operate con cura nel corso dei secoli fino al suo più grande caratteristico restauro in epoca contemporanea. Tutto parte nel XII secolo, a quando si fa risalire la prima costruzione. Nata forse come cappella di un’abbazia benedettina femminile, fu profondamente ristrutturata nel XIII secolo per opera della badessa Sardigna de Lacon, come si legge nell’epigrafe della facciata, che riporta anche la data di consacrazione: 1291.

Ma la chiesa ha anche altre vite, perché subì numerosi interventi: nel 1368 un rifacimento in stile gotico, nel 1504 una risistemazione a seguito di un crollo e nel XIX secolo, quando subì altri due restauri. Il momento più particolare è legato all’età contemporanea: fu oggetto di un ‘esperimento’, che in archeologia e architettura è detto anastilosi, la tecnica con la quale si rimettono insieme, pezzo per pezzo, gli elementi originali di una costruzione distrutta. La chiesa fu trasferita per non essere sommersa dal bacino dell’Omodeo. Si tratta della maggiore opera di ingegneria architettonica di inizio XX secolo. L’edificio tornò a vivere dopo soli 28 giorni, esattamente dove oggi potrai ammirarla in tutta la sua possanza.

Nel territorio di Ghilarza, oltre a varie testimonianze prenuragiche, nuragiche fenicio-puniche, romane e bizantine, sono imperdibili altri due santuari: la chiesa di san Palmerio e il villaggio di san Serafino, caratterizzato da sas cumbessias. In paese, invece, non mancare una visita alla casa-museo di Antonio Gramsci.

Sa Spendula

Una lama d’acqua fende la roccia e trapassa una foresta rigogliosa e profumata. È l’immagine che la natura ha dipinto a meno di un chilometro da Villacidro, nel Medio Campidano, imprimendola in una delle rare cascate che fluisce perennemente in Sardegna e che tanto impressionò il vate D’Annunzio da decantarla in un sonetto composto durante una sua visita nell’Isola. Sa Spendula significa proprio ‘la cascata’: è generata dal rio Coxinas, che prende origine dalle punte di Santu Miali, nell’area protetta di Monti Mannu, e compie, a partire dall’altura omonima, tre salti consecutivi per un’altezza complessiva di 60 metri di dislivello. L’ultimo balzo, di circa 30 metri, s’infrange fragoroso su rocce granitiche per poi precipitare dentro una gola dominata da una guglia detta Campanas de Sisinni Conti.

Le acque formano tre piscine naturali nei punti di caduta. Compiuti i salti, il torrente prosegue la corsa a valle, verso la pianura del Campidano, prendendo il nome di rio Seddanus. Lo scenario è spettacolare: in autunno e inverno contemplerai la piena vitalità di cascata e laghetti, mentre durante l’estate sarai affascinato dalla suggestiva illuminazione (artificiale) serale e dal fresco inebriante. Dal parcheggio alla cascata arriverai in cinque minuti percorrendo un comodo sentiero lastricato, lungo il quale già si sente lo scrosciare dell’acqua. A ridosso dell’area di sosta troverai un grazioso e accogliente parco immerso tra lecci, oleandri e pini e dotato di area pic-nic e giochi per bambini, meta ideale per scampagnate in famiglia. Accanto una fonte e un antico pozzo. Il poeta ‘avventuriero’ Gabriele D’Annunzio, nel suo lungo viaggio in Sardegna nel 1882, rimase estasiato dalla natura aspra e dalla genuinità di genti e tradizioni: dal vino Nepente di Oliena alla cascata sa Spendula. Nella visita invernale a Villacidro fu accompagnato anche da Ugo Ranieri, insieme al quale, abbozzò la poesia, poi rimaneggiata sotto forma di sonetto col titolo ‘La Spendula’ e pubblicata nel giornale letterario ‘Capitan Fracassa’.

Sa Spendula è la cascata più famosa ma in su Monti Mannu lo spettacolo prosegue: tra rigogliosi lecceti e un sottobosco dagli intensi profumi, scrosciano altre due cascate, cui arriverai seguendo percorsi segnati e rientranti nel parco del monte Linas. Il primo sentiero porta a uno spiazzo panoramico, da cui ammirerai il salto di 45 metri di Piscina Irgas, che si inabissa in una profonda piscina. Il possente getto col tempo ha scavato un canalone dove le acque scorrono veloci tra lecci, corbezzoli, eriche e oleandri e confluiscono nel torrente Leni. Un altro sentiero porta, nel territorio di Gonnosfanadiga, alla più imponente cascata sarda, su Muru Mannu, alta circa 70 metri nel suo salto maggiore, stretto tra due pareti a strapiombo. Sfocia in un laghetto circondato da lecci e agrifogli. Il Linas, associato alla foresta Marganai e alla valle di Oridda, è un paesaggio alpino con cime selvagge, profonde gole e pareti scoscese. Tra picchi di granito rosa e grigio verdeggiano quasi ottomila ettari di boschi, habitat di cervo sardo e aquila reale. Una rete di sentieri vi si addentra: è luogo per escursioni di trekking, in mountain bike e a cavallo.

Tutte queste bellezze naturali incontaminate sono la grande ricchezza di Villacidro: oltre al parco del Monte Linas, comprendente Monti Mannu e la valle del Coxinas, spicca la valle di Villascema, celebre per i ciliegeti, da cui deriva un appuntamento atteso tutto l’anno, la sagra delle ciliegie. Insieme al pregiato olio d’oliva, a ottimi vini e carni sono le produzioni d’eccellenza di Villacidro, cittadina a 45 chilometri da Cagliari che conserva tradizioni agropastorali ed è ancorata ai valori del passato, celebrati da Giuseppe Dessì, cui è dedicato un parco culturale proprio all’interno del Linas: i suoi paesaggi sono esaltati dalle opere dello scrittore. a proposito di cultura, da non perdere tre musei cittadini: sa Potecarìa, uno d’arte sacra e quello archeologico Villa Leni. In città e campagne, spiccano le chiese di san Sisinnio, immersa tra oliveti secolari, la Madonna del Carmine e la parrocchiale di santa Barbara, di origine cinquecentesca. Da visitare anche il lavatoio pubblico in stile liberty.

Montevecchio

Dalle umili case degli operai al lussuoso palazzo della direzione, passando per cantieri di estrazione e lavorazione, sedi dirigenziali e di servizi. Tra i monumenti di archeologia industriale di Montevecchio, immersi nel territorio di Arbus e Guspini, compirai un tour storico-culturale alla scoperta di un ‘mondo fantasma’ rievocato da un complesso di miniere dismesse, a poche centinaia di metri dalle dune di Piscinas e vicino ad altre spiagge della Costa Verde. L’attività estrattiva del sito, uno degli otto che compongono il parco geominerario della Sardegna - simbolo dei Geoparks dell’Unesco – è durata quasi un secolo e mezzo, dal 1848, quando re Carlo Alberto concesse lo sfruttamento per primo a Giovanni Antonio Sanna, ideatore dell’‘affare del secolo’, sino al 1991, anno della definitiva chiusura dopo decenni di crisi. Visse tempi fiorenti e di sviluppo, supportati da innovazioni tecnologiche: nel 1865, con 1100 operai, era la miniera più importante del Regno d’Italia.

Percorrerai il complesso attraverso quattro itinerari. Il percorso ‘palazzina della direzione’ si sviluppa all’interno del palazzo costruito fra 1870 e 1877 dal Sanna al centro della borgata Gennas Serapis. Adibita in origine a ospitare sia gli uffici della società mineraria che la dimora della famiglia del primo proprietario, poi alla sola attività amministrativa, la palazzina dalle forme classicheggianti e neorinascimentali era il ‘cuore’ di Montevecchio e comprendeva la chiesetta di santa Barbara, patrona dei minatori. Le stanze del primo piano, ricostruite fedelmente, raccontano i fasti della borghesia dell’epoca, specie la sfarzosa ‘sala blu’. Blu come le decorazioni di pareti e volta. Il ‘pezzo pregiato’ del palazzo fu usato, prima, per i ricevimenti, poi per le riunioni. Attorno a un camino, spiccano un ricco salotto, specchi dorati e un pianoforte: evocano memorie di feste e balli. In altre sale ammirerai pitture murali e la collezione di oggetti dell’ex direttore Castoldi. Ti basterà salire una rampa di scale perché i fasti borghesi svaniscano: nel sottotetto troverai i modesti ambienti destinati alla servitù, le cui condizioni di vita erano comunque migliori di quelle dei minatori.

Prima tappa del ‘percorso Sant’Antonio’ è la torre del pozzo di estrazione: un grande argano a bobine trasportava su e giù per 500 metri uomini e minerali. La ‘neogotica’ torre merlata domina il cantiere e ‘maschera’ il duro lavoro che si svolgeva dentro. Accanto al pozzo noterai sala forge, lampisteria, centrale elettrica, officina e due sale compressori. I vagoncini di una ferrovia ‘interna’ trasportavano i minerali da qui alla laveria ‘principe Tomaso’. Il percorso prosegue negli alloggi degli operai, arredati in modo essenziale, testimoni del loro status. Utensili, stoviglie, letti in ferro battuto e poche suppellettili era ciò cui poteva ambire una famiglia di minatori. L’ex deposito minerali, fulcro del complesso del Rio, offre una panoramica sulla lavorazione dalla roccia grezza al metallo pronto alla forgia. Qui leggerai documenti su ricerche stratigrafiche e descrizioni su tecniche di estrazione, cernita e arricchimento. Il ‘percorso officine’ ti accompagnerà attraverso i locali di supporto: fonderia del 1885, officina meccanica, sala per forgiatura e tempera dei fioretti e sala dei modelli in legno, necessari per riprodurre in fonderia i pezzi di ricambio dei macchinari. Nel piazzale attorno alla miniera di Piccalinna, ‘vissuta’ due volte – prima con la società italo-francese Nouvelle Arborese poi con la società Montevecchio - ammirerai opere architettoniche in pietra basaltica a vista e con decori in laterizi, soprattutto il pozzo san Giovanni che ricorda il torrione di un castello medievale. Da qui parte l’‘itinerario Piccalinna’: visiterai locale forge, lampisteria e sala argano con l’imponente macchina d’estrazione di fine XIX secolo. I suoi 120 cavalli vapore estraevano venti metri cubi di materiale all’ora: un esempio unico al mondo, ancora oggi in grado di funzionare. Dall’argano passerai alla sala compressori e poi alla laveria, che nel corso del tempo fu trasformata prima in alloggi e deposito, poi in scuola dei figli degli operai. Attorno le abitazioni, specchio delle ‘classi’ operaie: la graziosa villa dei capisquadra arroccata sulla collina, gli scarni alloggi delle famiglie dei minatori e le case degli scapoli, fatiscenti, come in un villaggio fantasma.