Basilica di Santa Croce
È un tempio simbolo dell’integrazione religiosa e socio-culturale del Castello, fulcro di Cagliari tra XIII e XIX secolo. Scoprirai la basilica di santa Croce passeggiando nel cuore della città e accedendo al quartiere medioevale dal bastione saint Remy. Attraversata la torre dell'Elefante e percorrendo il bastione santa Croce in direzione del Ghetto degli Ebrei, ti accorgerai a un tratto di una piazzetta, preceduta da pochi scalini e racchiusa tra le case dell’ex quartiere ebraico: qui si affaccia il prospetto della monumentale basilica, riaperta al culto nel 2007 dopo decenni di restauri. È difficile fotografarne l’intera slanciata facciata, perché potrai indietreggiare solo di pochi passi nel sagrato. La sensazione di maestosità cresce all’interno, a navata unica, voltata a botte e decorata a finti cassettoni da Ludovico Crespi.
Su ciascun lato, tre cappelle, anch’esse voltate a botte e ornate da altari barocchi in marmi policromi, dove sono custoditi sculture e dipinti (XVII-XVIII secolo). Il presbiterio è arricchito da un altare maggiore, dove si erge un Cristo Crocifisso ligneo, e chiuso da un’abside semicircolare, su cui Antonio ha affrescato i santi Maurizio e Lazzaro (1842). La facciata è divisa in due livelli: in quello inferiore si apre il portale, sormontato da un timpano curvo, quello superiore è scandito da lesene e delimitato da due obelischi. Altra particolarità, i due campanili: uno a vela parallelo alla facciata, l’altro, vicino al presbiterio, a torre con canna quadrata e cupolino orientaleggiante. La storia della chiesa, in origine sinagoga, è intrinsecamente legata al borgo, un tempo Giudaria di Cagliari, che giunse alla massima espansione sotto la dominazione aragonese, prima che Ferdinando II bandì dai territori della Corona ebraici e musulmani che non si fossero convertiti al cristianesimo (1492). La sinagoga diventò chiesa cattolica e fu concessa a un’arciconfraternita, i cui nobili membri erano impegnati a confortare i condannati a morte. Nel 1564 l’arcivescovo Parragues, per favorire la crescita culturale cittadina, chiamò i gesuiti, cui furono concesse chiesa e case adiacenti, che diventarono il collegio della compagnia del Gesù. Grazie all’eredità lasciata loro dalla nobildonna Anna Brondo, l’edificio fu ampliato e trasformato radicalmente. Da un’iscrizione in facciata si evince che i lavori si conclusero nel 1661. A fine XVIII secolo papa Clemente XIV sciolse i gesuiti: il complesso passò allo Stato. Infine, a inizio XIX, il re Vittorio Emanuele I elevò la chiesa al rango di basilica magistrale e la affidò all’ordine cavalleresco dei santi Maurizio e Lazzaro, cui appartiene tuttora. Mentre l’ex collegio divenne, nel corso dei secoli, monte di Pietà, stamperia, tribunale, corte d’Appello, facoltà di Lettere e, oggi, di Architettura.
Scintille di fuoco nelle notti di metà gennaio
Sant’Antonio discese negli Inferi per rubare una scintilla e donarla all’Umanità. È una leggenda, ma dalla notte dei tempi si ringrazia il santo per questo dono vitale accendendo in suo onore enormi falò all’imbrunire del 16 gennaio: ci si raccoglie intorno e ogni comunità dà vita al proprio rituale. In alcuni paesi il rito si ripete nella serata del 20 con spettacolari falò in onore di San Sebastiano. I fuochi incitano le anime a danzare, prima con movimenti simili a sussulti, poi la festa si vivacizza all’aumentare del crepitio dei rami infuocati, la musica di launeddas e fisarmoniche accompagna balli e canti corali, cibo e vino sono offerti agli ospiti: fave con lardo, coccone, pistiddu, dolci di sapa, mandorle e miele. La magia si ripete anche nel 2024: sacro e profano tornano a mescolarsi in un rito collettivo che rinsalda i legami delle comunità e funge da auspicio per un’annata prospera.
Nuraminis
Si distende in una piana punteggiata da modesti e isolati rilievi calcarei abitati sin dalla preistoria. Nuraminis è un paese di duemila e 600 abitanti del sud Sardegna, di tradizione cerealicola, ribadita dalle sagre del cereale a metà giugno e della semina a mano a dicembre. Il suo territorio è caratterizzato da rare formazioni geologiche, che raggiungerai attraverso percorsi in mountain bike o a cavallo, mete anche di appassionati di climbing. Spiccano le cupole laviche di monte Leonaxi, i fossili di Genna Siustas e monte Matta Murroni e la cuesta calcarea di Coa Margine, noto come calcari di Villa Greca. Il monumento naturale è una dorsale rocciosa di un chilometro, residuo di una scogliera corallina, che balza agli occhi rispetto al paesaggio attorno. I siti geologici mostrano anche eredità archeologiche. Sulla sommità di Matta Murroni ammirerai strutture murarie megalitiche, vicino alla vetta della cuesta i resti de sa Corona, protonuraghe del III millennio a.C., unicum tra le architetture preistoriche. Ai piedi del Leonaxi c’è un sito pluristratificato (nuraghe ‘a corte’ o complesso fortificato), con strutture murarie realizzate grazie a sovrapposizione di tecniche differenti. Altra area ‘a più strati’ è Santa Maria, abitata dal III millennio a.C. all’alto Medioevo, dove vedrai resti di un villaggio, un sepolcreto, un pozzo sacro e resti di un luogo di culto cristiano. A Genna Siutas c’è Funtana ‘e Siutas, costituita da quattro grandi lastroni, con un foro per prelevare l’acqua, e da una scala d’accesso alla vasca. A 500 metri di distanza ecco il complesso di Serra Cannigas, un nuraghe a corridoio associato a uno a tholos cui si aggiunge una struttura fortificata che sfrutta la roccia su cui poggia per creare un terrazzamento artificiale. Nel versante orientale affiorano tracce di capanne. I reperti mostrano una frequentazione plurimillenaria. Da due sepolture a fossa nello stesso colle sono venuti alla luce vasetti, fusaiole e ornamenti in rame esposti al museo archeologico nazionale di Cagliari. Su un altro rilievo si trova il complesso nuragico detto Nuraxi, con villaggio annesso. Testimonianza neolitica è sa Grutta, grande grotta dove si aprono cavità minori con caratteristiche di domus de Janas.
Di grande valore architettonico è la parrocchiale di san Pietro apostolo, costruita in forme gotico-catalane poi rimaneggiate, che conserva originali il campanile (alto trenta metri) e la volta stellare dell’abside. Di pregio storico sono nicchie e frammenti marmorei bizantini. Presbiterio e cappelle laterali conservano altari lignei e marmorei, statue e dipinti, tra cui un retablo dei misteri del Rosario (XVII secolo). Altrettanto suggestiva, a Villagreca, è la chiesa di san Vito martire del IX secolo, rara architettura bizantina nell’Isola, ristrutturata nel XVIII in stile catalano. Custodisce un cinquecentesco ‘Crocifisso doloroso’, proveniente dalle Fiandre, e due altari, ligneo e marmoreo, settecenteschi,. In campagna c’è la chiesetta romanica di san Lussorio martire, forse costruita nel XII secolo dai monaci vittorini.
San Nicolò Gerrei
Si inerpica a 370 metri d’altitudine, in un’area ricca di altopiani a sud del fiume Flumendosa. San Nicolò Gerrei, popolato da 800 abitanti, è il principale centro del territorio omonimo, abitato dal Neolitico e con tracce di stanziamenti stabili in epoca cartaginese e romana. Allevamento e attività mineraria sono le risorse principali, insieme alle coltivazioni di cereali e vitigni. Il nome del paese deriva dal patrono san Nicola, festeggiato due volte l’anno, a metà maggio e a inizio dicembre. L’esistenza dell’attuale abitato è attestata da fonti documentarie del XIII secolo: è citato come Padule (o Pauli) che rimarrà in uso fino al 1863. Deriva dal latino palus: l’abitato sorse in una conca soggetta a stagnazione e interessata da numerose risorgive.
Il Gerrei, fino a metà XVI secolo, era ricoperto da foreste e chiamato Galilla, nell’Antichità sede dei Galillenses, che nel 69 d.C., come attestato dalla tavola di Esterzili –grande iscrizione bronzea - furono costretti a ritirarsi da questi territori. Sono ritenuti i discendenti dei popoli prenuragici e nuragici, da cui derivano il circolo megalitico di mont’Ixi, i nuraghi Monti Taccu e su Nuraxi, la grande capanna sacra di Forreddus e tre fonti sacre, tra cui su Musuleu ben conservato. Noti archeologi del XIX secolo parlano de su Putzu de santu Iacci, tempio a pozzo a circa quattro chilometri dal paese. Alle spalle sgorgava una sorgente d’acqua raccolta da un pozzo, forse un santuario rivolto alla divinità ‘sanatrice’. Tra i suoi ruderi, nel 1861, fu riportato alla luce il reperto che ha reso famoso San Nicolò: una base di colonna in bronzo con iscrizione trilingue (latina, greca e punica) della metà del II secolo a.C. In origine era forse un altare cilindrico coronato. I tre testi sono una dedica votiva: un tale Cleone rende grazie al dio Eshmun (corrispettivo di Asclepio greco ed Esculapio latino) per la salute recuperata. La presenza a Santu Iacci di ruderi e frammenti di ceramica che vanno da età nuragica a epoca romana e di monete puniche testimonia che la fonte fu in uso ininterrottamente. Oggi non c’è traccia del tempio. Mentre di epoca romana rimangono altri importanti reperti, tra cui un tesoretto di quasi 400 monete coniate tra 117 e 251 d.C. Molte eredità romane furono portate nella Penisola dai Savoia nel XIX secolo. Per esempio, un sarcofago in marmo pentelico riccamente scolpito – vi è rappresentato Apollo citaredo, accompagnato da Atena e circondato dalle nove Muse -, tra i più belli mai trovati in Sardegna. Fu portato prima a Genova, poi, su richiesta di Carlo Felice, trasferito in un castello del Piemonte. A un altro sarcofago accennava nel 1915 il canonico Francesco Lecca. La necropoli da cui provengono sarebbe stata scoperta nel 1932 in località Bingia Manna.
Segariu
Il nome deriva da s’ega ‘e riu, ossia ‘la valle acquitrinosa del fiume’ oppure segau de s’arriu, ‘tagliato in due dal fiume’, in quanto l’abitato si trova in una valle, attraversato da due torrenti affluenti del Flumini Mannu. Segariu è un paese di mille e 200 abitanti che si trova quasi al confine tra le regioni storiche della Marmilla e della Trexenta: il suo territorio ha le caratteristiche di entrambe, le colline morbide ricoperte di pinete e macchia mediterranea marmillesi e i rilievi aspri e i fertili tratti pianeggianti coltivati trexentini. Il paese è noto per la tradizionale lavorazione del caolino e del calcare, con produzione di mattoni d’argilla e tegole. A testimonianza della tradizione, al centro del paese, ecco il museo delle argille, dedicato al recupero dell’attività che per secoli ha caratterizzato la sua storia.
L’esposizione è fedele ricostruzione del cantiere di lavorazione della tegola segariese. Qui, potrai assistere e partecipare a laboratori didattici condotti dagli artigiani dell’argilla. Anche la mostra Perdas e Minas rappresenta una peculiarità ‘atipica’ rispetto al circostante mondo agricolo campidanese, attraverso fotografie d’epoca, attrezzature da lavoro e fedeli riproduzioni dei processi produttivi. Ulteriore manifestazione della tradizione è l’evento Tebajus, a luglio, che aggiunge alle attività legate alla produzione locale delle tegole cotte, esposizione di prodotti tipici e mostre di artigianato.
Il territorio fu abitato almeno sin dall’età del Bronzo come testimoniano il nuraghe Franghe Morus e il nuraghe quadrilobato di Sant’Antonio, simbolo di Segariu, vicino al centro abitato. Eretto in blocchi calcarei e marnacei, presenta una torre centrale e quattro esterne orientate ai punti cardinali. Il settore orientale a ridosso del nuraghe e parte dei suoi settori interni hanno restituito testimonianze di un ampio e interessante insediamento tardo-punico. Probabile che accanto sorgesse anche una tomba di Giganti, di certo si erge la chiesetta campestre dedicata al santo costruita tra XII e XIV secolo, in stile tardo romanico, sopra un pozzo sacro forse coevo all’insediamento nuragico. Sarebbe uno delle varie espressioni sarde di continuità tra culture e religioni. I festeggiamenti in onore di sant’Antonio sono a inizio settembre, oltre agli aspetti liturgici, vengono proposti per la degustazione prodotti e piatti della tradizione locale. Al centro del paese sorge la seicentesca parrocchiale di san Giorgio martire, che presenta un presbiterio coperto da volta stellare di tipo gotico-catalano. Il patrono è celebrato a fine aprile con riti religiosi e spettacoli musicali.
Setzu
‘Seduto’ ai piedi della Giara, tavolato basaltico che rappresenta un’oasi naturale senza pari, Setzu è un piccolissimo centro agropastorale di circa 150 abitanti, il minore del sud Sardegna e tra gli ultimi per numero di residenti di tutta l’Isola. La sua economia si basa su agricoltura e allevamento: è noto per la produzione di carni, formaggi, vini e per funghi e lumache, ‘basi’ di tradizionali specialità culinarie, che potrai gustare a metà agosto durante la sagra della fregola e de su pani indorau. Il nome del paese significherebbe ‘vecchio’ (da su becciu, su belzu/elzu, s’etzu), essendo il più antico tra i paesi vicini, nel Medioevo parte del giudicato d’Arborea.
Il suo territorio comprende circa 250 ettari del versante sud-occidentale della Giara, oltre ad altre ‘morbide’ colline della Marmilla. Il simbolo del luogo è una specie equina selvaggia unica in Europa: i cavallini della Giara. Potrai osservarli da vicino mentre galoppano tra querce da sughero, roverelle, lecci, olivastri e macchia mediterranea. L’area è perfetta per equitazione e biking.
Il centro ha conservato un’architettura tradizionale con case campidanesi in pietra, caratterizzate da portali ad arco e porticati interni (lollas). Si dispongono attorno alla parrocchiale di san Leonardo, costruita nel XIII secolo in forme romaniche e andata in rovina sino al rifacimento del XVII secolo, con evidenti richiami barocchi. Accanto alla chiesa sorge il campanile a canna quadrata, testimonianza dell’originario impianto romanico. Il patrono è celebrato a inizio novembre. L’altro santuario del paese è dedicato a san Cristoforo. Setzu è molto legato alle tradizioni: atteso momento per la comunità è la festa di sant’Ignazio da Laconi a fine agosto. Parte del patrimonio culturale del paese risiede nell’ex monte granatico e nel museo multimediale Filo di Memoria, allestito nel 2011 in una un’antica dimora ristrutturata nel cuore dell’abitato. Racconta, anche attraverso fiabe, archeologia preistorica e storia del centro in tre sale. Il percorso espositivo ti inviterà al ‘confronto in diretta’ con dea Madre e Janas, in un viaggio virtuale tra V e III millennio a.C., periodo in cui il territorio era popolato, come testimoniano le domus de Janas di Domu ‘e s’Orcu e Grutta sa Perda. Resti di torri nuragiche attestano la presenza umana nell’età del Bronzo: vicino al nuraghe s’Uraxi, sono state trovate anche numerose ceramiche romane. Dello stesso periodo in località Corte Muros sono venuti alla luce parti di muri e coperture di abitazioni. Mentre in località Nuraxi ‘e Setzu osserverai i resti di un villaggio di età imperiale.
Monserrato
Si adagia nel lembo più meridionale del Campidano, vicino al parco di Molentargius-Saline, all’interno della città metropolitana di Cagliari. Monserrato è una città di ventimila abitanti, il cui abitato, tramite la municipalità di Pirri, è unito senza soluzione di continuità con quello del capoluogo, da cui si è resa indipendente con referendum nel 1991. In sardo è nota come Pauli (palude), nome già medioevale. Fu poi Paùli Pirri. Nel 1881 divenne Paùli Monserrato e sette anni più tardi, con regio decreto, Monserrato, da ricondurre alla Madonna di Montserrat.
Il centro storico è caratterizzato da strette vie su cui si affacciano tipiche case campidanesi in ladiri (mattoni crudi di fango) con loggiati spagnoleggianti e portali in legno. È viva la tradizione vitivinicola, testimoniata anche dalla Sagra della vendemmia, a fine settembre. La sua cantina sociale è la più antica della Sardegna (1924): vi si producono nuragus, monica, moscato e nasco. Da fine XX secolo è stato notevole lo sviluppo edilizio, con nuovi e moderni quartieri. Lungo la strada per Sestu è sorta la Cittadella universitaria, vasto complesso collegato alla città dal ponte ‘strallato’ sulla statale 554, unico nell’Isola. All’interno della cittadella c’è il museo sardo di antropologia ed etnografia. L’altra esposizione principale è il museo delle Ferrovie della Sardegna, dedicato a materiale di costruzione e funzionamento di linee ferroviarie e stazioni storiche, con un’area dove sono custodite antiche locomotive a vapore e carrozze d’epoca. Anche convogli del Trenino Verde, servizio turistico che parte da Monserrato verso Mandas e Isili.
In centro ammirerai la parrocchiale di Sant’Ambrogio (festeggiato il 7 dicembre), di architettura tardogotico-catalana, costruita tra fine XV e inizio XVI secolo. L’interno è oggi a tre navate, in origine a una, quella centrale ampia e alta, composta da pilastri che si uniscono in archi a ogiva. Le navate laterali sono coperte a botte con sei cappelle per lato. Sull’altare maggiore in legno dorato e marmo policromo (1705) sono scolpite in bassorilievo scene di vita contadina e simboli cristiani. Il fonte battesimale è opera di artigiani catalani del secondo XV secolo. Particolare e unica in Sardegna è la conformazione dei contrafforti diagonali della facciata. Le prime notizie sulla chiesa di Santa Maria de Pauli risalgono al XII secolo. La sua pianta a croce greca è sormontata da una cupola ottocentesca. Viene aperta solo a settembre per celebrare la Vergine di Montserrat, poco prima dei rituali della vendemmia. Custodisce opere dell’artista Gianni Argiolas, fra cui il ‘Dipinto della Processione’. Altro illustre monserratino è il pittore Cesare Cabras (1886-1968), i cui dipinti sono in mostra all’interno del palazzo comunale. Tra le tradizioni monserratine spicca il lussuoso abito tradizionale femminile.
Furtei
Si distende sul versante occidentale di un colle tra Medio Campidano e Marmilla. Furtei è un piccolo centro di mille e 600 abitanti a circa 40 chilometri da Cagliari, che basa l’economia sulle attività agricole. Fu un importante centro medioevale. Nel suo territorio c’è un’alta concentrazione di testimonianze nuragiche con i ruderi di ben cinque nuraghi. A breve distanza dal centro abitato c’è il villaggio di Nuraxi, attestato dal XVII secolo, oggi quasi disabitato, dove un tempo sorgeva l’antica parrocchiale, la chiesa campestre di San Biagio, risalente al XIII secolo. Nella domenica delle Palme è tradizione che il sindaco consegni la 'palma della passione' al parroco, che la porta in processione. Il rituale è ricordo simbolico della pace tra Furtei e Nuraxi (1605) per intercessione del barone Santjust, che consegnò alle famiglie dei due borghi un ramoscello di palma.
Oggi la parrocchiale è la chiesa di Santa Barbara, festeggiata a inizio dicembre. Al suo interno è custodito un dipinto raffigurante la Crocifissione di Gesù, atto che ‘rivive’ il venerdì prima di Pasqua durante la Settimana santa. Parrocchiale, ex parrocchiale e chiesette di Santa Maria della Natività, di San Narciso (del XIII secolo), di San Sebastiano e della Sacra Famiglia si animano in occasione dei riti sacri, dal venerdì di passione, precedente alla domenica delle Palme, con sa pintadura de sa prama, sino al rito de su Incontru di Pasqua, passando per le processioni della Madonna addolorata e delle Palme, per la preparazione del Cristo e per su Scravamentu (la deposizione del Cristo morto). Oltre ai riti, sono tante le feste religiose, tra cui i falò di san Sebastiano (19 gennaio), le celebrazioni di Sant’Isidoro, protettore degli agricoltori (a metà maggio), di San Biagio a fine agosto, con la suggestiva processione di rientro del santo, e di san Narciso (fine ottobre), con intonazione del rosario a cori alterni e l’invocazione de is coggius, tutto in sardo campidanese. La festa principale è nella seconda settimana di settembre per la natività della Vergine.
Carbonia
Con quasi trentamila abitanti, Carbonia è la nona città sarda, la più popolosa del Sulcis. Larghe strade alberate la caratterizzano: sulle case svetta il campanile alto 45 metri che affianca la facciata in granito e trachite della chiesa di san Ponziano. La città nacque nel 1938, costruita in soli due anni per garantire alloggio ai lavoratori del bacino carbonifero Sirai-Serbariu. Le miniere sulcitane erano allora una delle principali fonti di approvvigionamento energetico dell’Italia. Nel nome Carbonia è indicata l’origine: fu costruita a ridosso della grande miniera, sostituendo un borgo ottocentesco, inglobato come rione. Il bacino, attivo tra 1937 e 64, aveva nove pozzi e cento chilometri di gallerie. Per cavare il carbone furono reclutati minatori da tutta Italia, da subito 16 mila risiedevano a Carbonia, la punta massima fu nel 1949 con 48 mila residenti e 60 mila dimoranti.
Oggi, dopo il suo recupero, Serbariu ospita il museo del Carbone, perfetta riproduzione del mondo minerario. Altro luogo di cultura da non perdere è il museo etnografico delle Attività agropastorali. Carbonia è sede di Mare e Miniere, appuntamento che riscopre la cultura locale, con eventi di cinema, musica, letteratura ed enogastronomia. Un tempo fu teatro di storiche rivendicazioni operaie. Tra 1940 e 43, la protesta dei minatori portò al primo sciopero in Sardegna (tra i primi in Italia) durante il ventennio fascista. A fine 1948 ci furono due mesi di ‘sciopero bianco’, per contrastare le misure repressive della Carbosarda, che gestiva la miniera. La reazione fu di acuirle. Esplose così un movimento nazionale di solidarietà alla lotta dei minatori: dopo un lungo braccio di ferro, l’accordo fu una vittoria dei lavoratori.
Ai siti minerari dismessi si affianca l’archeologia fenicio-punica: a monte Sirai, in un parco archeologico nella periferia nord-ovest della città, troverai case, piazze, tempio, necropoli di una colonia prima fenicia poi cartaginese. C’è anche un tofet, cimitero per bambini, parzialmente ricostruito nel museo Villa Sulcis, dove ti addentrerai nella città punica grazie ad allestimenti multimediali e conoscerai i reperti più antichi della preistoria sarda, provenienti dal riparo sotto roccia su Carropu, nella frazione di Sirri, risalenti al Mesolitico (9000 a.C.). Poco distanti dalla città si trovano varie grotte ‘preistoriche’, una decina di necropoli a domus de Janas e i resti di 15 nuraghi compresi fra 1600 e VI secolo a.C. Tra le testimonianze più interessanti, le necropoli di Cannas di Sotto, con 18 tombe e di Cùccuru su Cardolinu (3200-2800 a.C.). La dominazione romana è documentata dalla Villa di Barbusi, ‘vissuta’ da IV a.C. a III secolo d.C., e dal casale di Medau sa Turri, già sito nuragico e fenicio-punico, poi romano, infine villaggio medievale.
Santa Giusta - Castiadas
Verso nord è l'ultima spiaggia di Castiadas a far parte del litorale di Costa Rei, e ne conferma tutte le caratteristiche più ammalianti, con qualche ulteriore particolarità. Santa Giusta è composta da un arenile lungo circa un chilometro, noto anche con il nome di spiaggia di Villa Rei, e da una cala decisamente più piccola, incorniciata su un lato da un piccolo promontorio, dall’altro dal bianco affioramento granitico noto come lo scoglio di Peppino, la cui forma ricorda quella di una tartaruga. Lo ‘scoglio’ rappresenta il confine tra il territorio costiero di Castiadas e quello di Muravera, inoltre è uno dei maggiori punti di attrazione di Costa Rei. Sul suo ‘dorso’, è possibile sdraiarsi per prendere il sole, sostare per scattare suggestive fotografie e cimentarsi con i tuffi.
La sabbia di Santa Giusta è bianca e soffice, quasi impalpabile, con riflessi dorati e qualche granello di ghiaia. Il mare ti affascinerà per trasparenza e tonalità turchesi, con sfumature verde smeraldo date dai riflessi del sole sulla vegetazione circostante. Il fondale è basso e digrada dolcemente, rendendo la spiaggia un luogo sicuro per i bambini, inoltre la scarsa profondità permette all’acqua di riscaldarsi velocemente, creando un ‘effetto piscina’.
Nella caletta settentrionale osserverai anche una duna coperta da gigli di mare e, alle sue spalle, una ‘corona’ di ginepri. Non a caso, il tratto costiero compreso tra spiaggetta e promontorio è stato dichiarato sito di interesse comunitario e fa parte della rete Natura2000.
La spiaggia di Santa Giusta, grazie alla bellezza, ai colori e al panorama circostante, viene scelta ogni anno da numerose coppie come location per le nozze. L’aura di ‘sacralità’ per il fatidico sì è accentuata dalla presenza di una statua in bronzo in cima al piccolo promontorio, raffigurante il Cristo benedicente rivolto verso il mare.
Il limite meridionale della spiaggia è segnato da una lingua rocciosa che interrompe l’arenile e si ‘tuffa’ per qualche metro in mare. Oltre, troverai la spiaggia di Cannisoni, anch’essa caratterizzata da sabbia chiara e mare cristallino. Ancora più a sud si estende il litorale di Sant’Elmo. Poi è la volta della splendida cala di Monte Turno. Dalla parte opposta, superato lo scoglio di Peppino, entrerai invece nel lungo litorale (otto chilometri) di Costa Rei appartenente al territorio di Muravera.