Il giardino Pernis-Vacca e La Vega di Palazzo Boyl
“O cara Orangerie di Versailles (…), quanto tutta la vostra regale magnificenza era lontana dagli incanti che la natura ha prodigato alla solitaria valle di Milis!”. Con enfasi il Valery, bibliotecario della reggia parigina descrisse gli aranceti del borgo dell’alto Oristanese durante il suo tour nell’Isola (1834) e li paragonò al ‘giardino delle Esperidi’, ninfe custodi di giardini dai ‘pomi d’oro’. La visita alla fertilissima valle dove prosperano gli agrumi, detta la Vega, fu incantevole per tutti i viaggiatori in visita in Sardegna nel XIX secolo, compreso il generale-scrittore Alberto La Marmora, che nel ‘Viaggio in Sardegna’ ne parla in maniera entusiastica. Per due volte, nel 1829 e 1841, accompagnò a visitarla il re Carlo Alberto. Il paesaggio attorno a Milis è realmente una sorta di ‘giardino dell’Eden’ (parole del Valery): i viali di aranceti in primavera profumano di zagare e in inverno si decorano di dolci frutti.
In questo spettacolo, al limite sud-occidentale dell’abitato, si nascondono tra gli alberi il complesso residenziale di villa Pernis-Vacca e le scuderie annesse, risalenti a inizio XX secolo, nate per iniziativa dell’ingegnere Benvenuto Pernis. L’edificio in stile liberty si sviluppa a forma di ‘L’: il lato lungo (120 metri) mostra decori ed affreschi floreali. Al suo interno ammirerai i mobili originali e preziosi tappeti sardi. In origine il Pernis impiantò un allevamento di cavalli di razza angloaraba-sarda, che in breve tempo divenne uno dei più importanti dell’Isola. L’attività scomparve insieme al fondatore, nel 1922. Il compendio fu acquistato da Cosimo Vacca, che trasformò le aree del maneggio in agrumeti. A fine XX secolo il giardino fu implementato con tutte le varietà agrumicole dell’Isola, compresa la pompia di Siniscola. In realtà, l’area era coltivata ad agrumeti sin dal Medioevo: a introdurre la coltura furono nel XII secolo i monaci camaldolesi, fondatori della chiesa romanica di san Paolo. Da allora, sino a oggi, gli agrumi sono il perno dell’economia milese. Nel condaghe di santa Maria di Bonarcado sono descritti atti mercantili riguardanti le terre di Cracarzu, a est del paese: qui forse furono impiantati i primi alberi, quasi un millennio fa. I giardini, noti tradizionalmente come s’Ortu ‘e is Paras, ‘l’orto dei frati’, rientravano nella proprietà dei marchesi Pilo Boyl di Putifigari, giunti a Milis nel 1800 a seguito del matrimonio tra don Vittorio Pilo Boyl e la nobildonna locale Maddalena Vacca Salazar. S’Ortu fu chiamato dai marchesi bosco di Villaflor: è un meraviglioso giardino al centro della Vega, che toglie il respiro se lo si percorre durante la fioritura.
A proseguire la tradizione familiare, è stato Italo Vacca, paesaggista e coltivatore, che nel 1996, insieme a Leo Minniti, fondò un vivaio dentro il giardino, rinomato soprattutto per i fiori hemerocallis. A loro si deve anche l’organizzazione, a marzo, di Primavera in Giardino, la manifestazione floreale principale della Sardegna, nonché tra le più celebri in Italia, che raccoglie nel giardino di villa Pernis i migliori rappresentanti del vivaismo italiano. In mostra rose, ortensie, bulbose, piante grasse, erbe aromatiche, pelargoni del Sudafrica e specie che vivono fuori terra, come i ‘garofanini dell’aria’ senza radici. Durante l’evento sperimenterai l’accoglienza dell’antico borgo, che si esprime anche in altri eventi imperdibili: a febbraio, nella sagra degli agrumi e, a novembre, nella rassegna dei vini novelli.
Trame e intrecci dell'anima
Originali e intrisi di significati, abiti e gioielli sono la contaminazione dei segni lasciati dalle culture alternatesi in Sardegna: nuragica, fenicia, greca, bizantina e spagnola. Nulla è andato perduto. Come le vivaci e coloratissime cuffie indossate dalle donne di Desulo nei giorni di festa. Loro stesse le decorano ricamando in miniatura i dettagli dello sgargiante abito desulese: disegni geometrici gialli, rossi e blu alternati ai decori secondo la fantasia di abili e sensibili artiste. Altro mondo le donne di Tempio Pausania, austere nel prezioso abito in seta damascata, interamente nero. Ammirate per l’elegante grazia del portamento. Sulla testa portano una cascata di pizzi bianchi trattenuti dalla filigrana.
La Stonehenge del Mediterraneo
C’è una vicenda millenaria in Sardegna raccontata dalle testimonianze archeologiche disseminate su tutto il territorio. I segni tangibili della preistoria isolana sono infiniti: menhir, dolmen, domus de Janas, pozzi sacri, tombe dei giganti e infiniti complessi nuragici. Enormi pietre che custodiscono segreti lunghi quattro millenni. Costruzioni, spesso intatte, delle prime civiltà esistite in Europa, siti unici al mondo, un patrimonio da scoprire e da vivere: ecco la Stonehenge del Mediterraneo.
La terra del vino, da oltre tre millenni
Secondo le leggende greche fu Aristeo a introdurre le coltivazioni in Sardegna. L’eroe vi si stabilì per la bellezza della terra e ai due figli diede nomi che richiamano agricoltura e viticoltura: Kallikarpos, ‘dai bei frutti’ e Charmos, che deriverebbe dal semitico krmy (vignaiolo). Dalla mitografia alla realtà. Oggi è certo che la vinificazione nell’Isola risale almeno al XV secolo a.C.: secondo archeologi, botanici e chimici, il vino più antico del Mediterraneo occidentale era sardo, una sorta di cannonau di oltre tremila anni fa. L’ipotesi è divenuta certezza dopo aver analizzato, a fine 2016, i residui organici di una pressa di pietra rinvenuta nel villaggio nuragico di monte Zara, accanto a Monastir, a pochi chilometri da Cagliari. Lo studio archeobotanico ha ricondotto inequivocabilmente a pigiatura e lavorazione dell’uva, in particolare bacche rosse. Si tratta del torchio più antico del Mediterraneo, testimone della profonda competenza della civiltà nuragica in materia di vinificazione. La scoperta colloca la tradizione vinaria nell’età del Bronzo medio, seppure la presenza rigogliosa della vitis vinifera sylvestris spinge a ipotizzare una domesticazione e un’enologia evolute ancora più indietro nel tempo.
Magici scenari dove dire sì
Chi l'ha amata in vacanza spesso lascia qui un ‘pezzetto’ di cuore e alla prima occasione torna a riprenderselo, per vivere un giorno importante della propria vita. In tutte le stagioni è un luogo ideale, anche per sposarsi, l'Isola è romantica e affascinante, i suoi angoli più suggestivi sono scelti per suggellare belle storie d’amore. Si celebrano nozze da sogno a volte in luoghi famosi e ricercati, altri meno noti ma poetici e memori di vicende passate, un faro, una grotta, un pozzo sacro, tra i filari di un vigneto, in giardini che mutano profumi e colori con le stagioni. Una rete di esperti wedding planner si prende cura della preparazione del grande evento, dai preparativi sino al giorno del fatidico sì, e poi la luna di miele per gli sposi e una vacanza per amici e parenti. Se questo non è un sogno!
Sa Domu Beccia
Secondo il ‘padre’ degli archeologi sardi, Giovanni Lilliu (1914-2012), era la reggia di una piccola capitale, esattamente come su Nuraxi a Barumini e nuraghe Losa ad Abbasanta. Prima di lui, a inizio XIX secolo, altri studiosi sardi, Angius e Spano, testimoni oculari della fortezza, ne esaltarono l’architettura. L’antica maestosità del nuraghe sa Domu Beccia (‘casa vecchia’ in campidanese), un unicum nell’Isola per la singolare articolazione di torri e cinte fortificate, è stata poi irrimediabilmente segnata negli anni 1822-25: con i massi del monumento furono realizzati 15 chilometri di selciato della strada per Oristano. Il fascino della sua visita, però, non ne è intaccato: a 800 metri dall’abitato di Uras, ai piedi sud-occidentali del parco del monte Arci - territorio abitato sin dal Neolitico finale anche per la presenza di giacimenti di ossidiana – ammirerai i ruderi di un elaborato e imponente complesso ‘vissuto’ tra Bronzo medio e finale (XV-XI secolo a.C.).
Sa Domu Beccia, costruita in pietra basaltica, è costituita da un bastione a tre torri unite da cortine murarie, che racchiudono una torre centrale (mastio) e un cortile, con pozzo al centro, da cui si aprono accessi a sei ambienti. Dal mastio si dipartono tre rampe di scale che ‘suggeriscono’ l’originaria complessità dei livelli superiori del nuraghe: l’attuale interramento non consente di rilevare la planimetria di camere, ingressi e corridoi, ma potrai notare nelle pareti del mastio tre grandi nicchie disposte a croce. Lo splendido fortilizio è ‘protetto’ da un monumentale antemurale ettagonale con sei torri (di diametro tra cinque e sei metri). A sud del nuraghe, si estende un vasto villaggio costituito da circa 150 capanne discretamente conservate, in gran parte circolari. A breve distanza, a nord, è stato individuato il profilo di una tomba di Giganti, con corpo allungato absidato ed esedra semicircolare.
Le origini di Uras risalgono a fine III millennio a.C., testimoniate da ceramiche ritrovate a sa Grutta manna. A Roja Cannas, alle falde del monte Arci, è stato individuato il maggiore giacimento di ossidiana del Neolitico. Il territorio fu densamente abitato in età nuragica: oltre a sa Domu Beccia, vedrai più di venti torri megalitiche e due tombe di Giganti. Interessante anche la storia successiva dell’importante centro agricolo del Campidano oristanese: testimoni del Medioevo sono i resti dell’abbazia di san Michele in Thamis (XII secolo), a due chilometri dal paese, e lo sono stati fino ai primi del XIX secolo - come attestano Angius e Spano - i muraglioni del castello di Uras. Oggi l’abitato storico si sviluppa attorno alla barocca parrocchiale di santa Maria Maddalena (1664-82). A proposito di storia e luoghi di culto: accanto alla chiesa di san Salvatore si combattè il 14 aprile 1470: Leonardo Alagon sconfisse gli aragonesi del viceré Carroz.
Nostra Signora di Bonacatu
La storia di Nostra Signora di Bonacatu ha inizio nel V secolo, quando i colonizzatori bizantini cominciarono a erigere una chiesetta quadrangolare (12 metri per lato) in basalto e trachite. Successivi rimaneggiamenti (VII-VIII secolo) furono apportati quando forse si era già insediato il primo nucleo dell’attuale Bonarcado, borgo alle falde del Montiferru, a 25 chilometri da Oristano. Il sito del piccolo santuario, di certo uno dei primissimi edifici cristiani dell’Isola, affonda le sue radici in vicende ancora più remote, risalenti a un insediamento nuragico sul quale si sovrappose un villaggio romano con edificio termale, i cui resti furono usati per costruire il santuario. Ne è testimone una vasca con pavimento a mosaico nel ‘braccio’ orientale.
Il nome porta con sé leggende: pare che la chiesa fosse stata scoperta nel bosco da un cacciatore, da cui bonacatu, ovvero ‘buon ritrovamento’. Più probabile che la denominazione derivi dall’intitolazione bizantina alla vergine Panachrantos (immacolata). Lo stesso nome del paese, in origine Bonacranto o Bonarcanto è una corruzione del nome greco. La ‘versione’ odierna del tempio è figlia di vari interventi, con aggiunta di elementi architettonici, tra cui due facciate, una romanica a ovest tra 1242 e 1268, decorata con archetti pensili e ciotole ceramiche multicolori, e una a nord, nel 1933, in stile neoromanico. All’interno ammirerai la parte più antica: i quattro ‘bracci’ della pianta a croce greca, voltati a botte, il cui incrocio è sormontato da una cupola di ispirazione bizantina. Nel braccio sud si trova l’altare maggiore su cui campeggia un bassorilievo in terracotta policroma della Madonna col bambino (XV secolo): dall’effige derivò a Bonarcado il più antico culto mariano dell’Isola, che attira ogni anno migliaia di fedeli, principalmente durante la celebrazione della Vergine a settembre.
Una seconda svolta avvenne a inizio XII secolo, quando il giudice Costantino d’Arborea affidò il borgo ai camaldolesi di Pisa. I monaci fondarono un’abbazia – il cui atto fondativo è il primo documento (in logudorese) del condaghe di santa Maria di Bonarcado – e costruirono un monastero. Nel 1146 vi affiancarono anche una nova clesia, proprio di fronte all’antico santuario, a formare oggi un complesso affacciato su una piazza lastricata del centro storico. Nacque la suggestiva basilica di santa Maria, in basalto scuro e inserti di trachite rossiccia, che acuiscono il suo fascino. In origine a navata unica e croce commissa, fu ‘trasformata’ a tre navate, con aggiunta di campanile a canna quadrata, a metà del XIII secolo. I lavori furono appannaggio di maestranze provenienti dalla Spagna (le stesse che intervennero sul santuario). A loro si deve l’introduzione in Sardegna di elementi decorativi di matrice islamica: archetti lobati, lesene ‘a fisarmonica’, peducci gradonati e a piramide rovesciata. Un ulteriore ampliamento è del XVIII secolo. Attualmente il prospetto principale è caratterizzato da tre arcate con al centro un portale sormontato da arco in conci bicromi.
San Serafino
Si ergono sulle pendici verdeggianti dell’altopiano di Perda ‘e pranu, che spicca in un’ansa del bellissimo lago Omodeo. Il santuario e il novenario di San Serafino, immersi suggestivo scenario del territorio di Ghilarza, furono impiantati su una chiesa bizantina del VII secolo, a sua volta sorta probabilmente su vestigia romane, di cui sono testimoni ceramiche di epoca tardo-imperiale rinvenute durante i lavori di restauro del santuario (1950). Molti secoli, in epoca giudicale, l’edificio bizantino fu ricostruito e ampliato. Conservò il suo aspetto medioevale fino al 1884 quando furono aggiunte due cappelle laterali, così da assumere l’attuale struttura cruciforme. L’unico ambiente rettangolare è ricoperto con tetto ligneo su capriate e si chiude con un’abside semicircolare. Rimangono le decorazioni esterne: sulla porta trecentesca del prospetto, noterai una luce a forma di croce e una formella con l’Agnus Dei, mentre nella fiancata meridionale è conservata una porta ad arco acuto, sopra la quale è scolpito un albero sradicato, forse il più antico stemma del giudicato d’Arborea. Sull’architrave è rappresentato un San Serafino assieme a ecclesiastici e personaggi di alto rango. Al Seicento risale il pulpito di cui oggi rimane una bella colonna in trachite, con in rilievo visi angelici e la ‘mostra’ della vite, motivi tipici dell’arte minore sarda.
Attorno alla chiesa ci sono sas muristenes, ‘casette’ per accogliere fedeli e forestieri, sorte nel 1600: il novenario di San Serafino ne conta 103, abitate e molto frequentate in occasione dei nove giorni di celebrazioni in suo onore. Il santuario è ricco di riferimenti sociali e culturali, esprime il senso profondo di una comunità, trattenendo echi e suggestioni secolari. Alla festa di san Serafino respirerai un’aria di pace e intimità. La processione passa attraverso tutte le muristenes. I bambini precedono il santo bussando in ogni casetta e annunciano il suo arrivo. Si recitano le novene, si cantano sos gosos, canti religiosi tradizionali, e si consumano le cene: quando le campane smettono di suonare, è annuncio del rientro del santo in chiesa e inizio dei balli.
Borghi, anima profonda della Sardegna
Non assomiglia a nessun luogo. È la Sardegna vista dai primi viaggiatori e dai letterati del passato: raccontano di una terra che affiora lentamente dal mare, descrivono lo spettacolo della natura che si svela, avvolta da luce intensa. Montagne che degradano verso le coste a tratti dolcemente, a tratti improvvisamente, incorniciando scenari mai uguali. Dal mare all’entroterra il tratto è sempre breve e costellato di piccoli e caratteristici centri, ‘anima’ intima della Sardegna. Sulle vie che portano nel cuore dell’Isola, accolto dalla calorosa ospitalità delle sue comunità, scoprirai vita autentica e tradizioni ataviche dei borghi . Ti perderai in intrecci di viuzze lastricate, ti imbatterai in edifici antichi, monumenti naturali, eredità archeologiche, scoprirai capolavori dell’artigianato e sapori inimitabili. Vivrai l’essenza della Sardegna, la sua identità più vera.
Incantevoli scogliere scolpite dal tempo
Una sorprendente gallery di paesaggi sempre diversi. Ecco come si presenta la linea di costa dell'Isola. Distese di sabbia candida o dorata, a volte scintillanti di quarzo o colorate di rosa. Oppure tratti di morbide dune vergini. O ancora profonde insenature e sorprendenti scogliere modellate dal vento e dalle onde nelle forme più originali e bizzarre. Falesie, faraglioni, tafoni sono vere e proprie installazioni artistiche sul mare, prodigi della natura a portata di mano, da raggiungere facilmente in auto, moto e bici. Sono poco frequentate, come i solitari promontori che circondano i fascinosi fari dell’Isola e le innumerevoli torri costiere. C’è sempre un lato riparato dove trovare l’esclusiva terrazza sul mare, un angolo intimo da vivere in libertà, lontano dalla vivacità delle spiagge. Per fare un bagno refrigerante tra i riflessi di luce delle rocce o tuffarsi dai ‘balconi sul mare’, circondati da pareti a strapiombo, guglie e anfratti. Luoghi di pace dove assistere ad albe e tramonti indimenticabili, ascoltando la musica del mare.