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Parco di Monserrato

Un tempo principale tenuta nobiliare della città, oggi area verde di sei ettari di valore naturale e storico, che custodisce un elegante giardino monumentale. Percorrendo il parco di Monserrato, adagiato lungo una conca nella periferia sud-occidentale di Sassari e restituito al suo splendore nel 2007 dopo un lungo restauro, farai un tuffo nel passato: i suoi viali rievocano i suoi momenti salienti, dall’origine nel XVII fino a inizio XX secolo. In tre secoli e mezzo, da azienda agricola divenne raffinato parco con infinite varietà di piante e opere architettoniche che ne abbelliscono i sentieri alberati. Attraverserai il viale dei tigli, dei lecci, dei carrubi, dei cipressi e dei pini. Al centro, sei isole di coltivazione ospitano piante d’arancio. Conformazione irregolare e varietà di vegetazione creano chiusure e ‘squarci’ improvvisi con vista sulla città. Si succedono esemplari di palme e di erythrina, olivi e olivastri, agrumi e melograni, bossi, ippocastani, magnolie, salici, siepi di lentisco ed essenze mediterranee. A impreziosire ulteriormente il parco sono gli edifici costruiti da nobili famiglie che si sono seguite nella sua proprietà. Dapprima i Navarro, commercianti di Valencia, poi i Deliperi, tra cui Giacomo, primo sindaco del capoluogo dopo l’unione di Piemonte e Sardegna. Dal 1866 fu la volta del deputato Giovanni Antonio Sanna, uomo di cultura e amico di Mazzini e Garibaldi: a lui si devono ingrandimento della ‘casa padronale’ e aggiunta di opere architettoniche. Dopo di lui fu proprietario il barone Giordano Apostoli, che abbracciò le suggestioni neogotiche del Romanticismo, inserendo nel parco manufatti come ‘torre di Caccia’ e ‘vasca del Belvedere’. Fu il periodo di maggior splendore. Dal 1921, ultimo titolare fu Nicolò marchese di Suni (nella Planargia).

Attraverso una strada all’ombra dell’oliveto giungerai alla ‘Conca verde’, e da qui alla terrazza del ‘tempietto delle acque’, lungo quasi dieci metri e alto sei e mezzo, in stile neoclassico. Appare quasi d’improvviso, severo nella purezza delle linee e accogliente nel gioco dei volumi. La facciata è caratterizzata da un portico di quattro pilastri in calcare, le coperture sono a botte. Il tempio domina una valle con al centro il ‘Ninfeo’, una vasca a forma d’ellisse decorata in stile neoclassico, lunga quasi nove metri e larga quattro. La passeggiata prosegue nel ‘viale dei tigli’ che conduce alla ‘casa’: da qui ti sporgerai sul belvedere che dà sul ‘viale dei cipressi’. Imperdibili sono le opere neoclassiche aggiunte a fine XIX secolo, a iniziare dalla ‘vasca delle rane’, lunga oltre trenta metri e larga dieci. Appoggiata e adeguata flessuosamente al declivio, si sposa con la natura del luogo. Al centro della parete da un passaggio voltato sgorga l’acqua. Da una breve gradinata accederai alla monumentale ‘torre di caccia’, alta 14 metri, con merlatura guelfa. Una stretta scala collega i piani fino alla terrazza da cui godrai di una vista fino al mare. Le linee di facciata sono severe ma il complesso conserva una sua morbidezza. La ‘vasca di caccia’ fa da ala al tempio delle acque e sottolinea il suo andamento in leggera pendenza. Torre e vasca si inseriscono armoniosamente nell’insieme di essenze arboree, prati e sentieri che degradano verso valle. Dal parco partirai alla scoperta di un’antica città regia: Fontana di Rosello, piazza d’Italia e cattedrale di san Nicola di Bari sono emblemi di storia e arte sassaresi.

Sud

Decimomannu

A ovest di Cagliari, dopo Assemini, ai bordi della statale 130 che porta a Iglesias, lungo un’ansa del riu Mannu, sorge Decimomannu, grande centro di oltre ottomila abitanti. È stato da sempre avamposto strategico, non a caso in epoca romana la via Caralis-Sulcis (Sant’Antioco) passava per Decimum. Anche il toponimo è di chiare origini romane, significa ‘a dieci miglia da Cagliari’. I primi stanziamenti nel suo territorio sono neolitici. Un villaggio nuragico e una necropoli dove furono rinvenute monete puniche in bronzo testimoniano le epoche successive. Secondo lo storico Casula, vicino a Decimo, si svolse la battaglia del 215 a.C. tra romani e sardo-punici, durante la seconda guerra punica. Si risolse con una schiacciante vittoria romana, la cui dominazione ha lasciato varie eredità, la più rilevante è il ponte sul riu Mannu, in località Bingia Manna, databile tra fine I secolo a.C. e inizio I d.C. Costruito in conci calcarei squadrati, si presume fosse costituito da tredici arcate. Oggi ne vedrai tre, più i resti di altri basamenti. Accanto i ruderi di un muro in pietra, argine per le piene. Secondo il canonico Spano “il ponte di Decimo era assai più bello di quello di Porto Torres”, con quelli di Sant’Antioco e Gavoi, gli unici sardi ancora in piedi. Resti di un altro ponte minore sono in zona su Meriagu. Altre tracce romane sono quelle dell’acquedotto, testimoni del primo approvvigionamento idrico pubblico. Nel Medioevo il paese andò al giudicato di Cagliari: molti giudici vi risiedevano. Di età aragonese è il sarcofago di Violante Carroz, figlia di Giacomo, viceré di Sardegna, custodito nel cimitero del paese.

Il più importante edificio religioso è la parrocchiale di Sant’Antonio abate in stile gotico-catalano, risalente al XVI secolo. Nell’unica navata si innestano tre cappelle per lato, a destra voltate a crociera, a sinistra coperte a botte. Attraverso un maestoso arco accederai al presbiterio dalla volta stellata. Di rilievo sono i capitelli gotici e il fonte battesimale. La facciata è impreziosita da portale gotico, rosone e, dal 1922, da un timpano triangolare. Alla sua sinistra si erge l’alta torre campanaria.

Sant’Arega (santa Greca) è conosciuta e venerata da 1700 anni a Decimo e in tutta la Sardegna. Secondo tradizione, la lapide, ritenuta autentica (IV o V secolo), custodisce la sua reliquia ritrovata nel 1633. Morì martire a vent’anni, forse durante le persecuzioni di Diocleziano e Massimiano (304 d.C.). Si ha notizia di una chiesa a lei dedicata nel 1500, costruita su una più antica (forse del XIII secolo). Nel 1777 fu realizzata all’ingresso sud-ovest di Decimo, una nuova chiesa con altare e pulpito in marmo policromo. Ha subito varie modifiche e un completo restauro. La chiesa rimane isolata tutto l’anno: si anima per una settimana a inizio ottobre in occasione della festa in suo onore che richiama migliaia di persone da tutta l’Isola.

Est

Valle nuragica di Truculu

Due nuraghi quasi identici risalenti a circa 3500 anni fa: l’Orruttu e il Sanu si stagliano maestosi a due chilometri l’uno dall’altro, impreziosendo la vallata di Truculu. Forse costituivano, insieme a un insediamento abitativo e due sepolture megalitiche, una reggia fortificata nell’altopiano di Osini, al centro dell’Ogliastra, celebre anche per l’imponente e bellissimo complesso di nuraghe Serbissi. Partendo dal paese raggiungerai la valle oltrepassando la Scala di san Giorgio, uno stretto passaggio sovrastato dal Castello, punta rocciosa forse sede fortificata romano-bizantina. Superato il costone, a circa quattro chilometri dal paese, ti ritroverai in un’area verde disseminata di tracce nuragiche.

Al centro della valle si erge il nuraghe Orruttu. La struttura è monotorre, coperta a tholos (falsa cupola) e costituita da grandi blocchi calcarei ben squadrati. Alla base il diametro è di 12 metri, mentre l’altezza residua di quattro e mezzo. Noterai un ingresso architravato a forma trapezoidale che immette nella camera interna, dove restano due nicchie e la scala. A completare il quadro, accanto alla torre, ci sono i resti di una capanna circolare con atrio rettangolare. La massiccia struttura è stata frequentata dal Bronzo medio al recente (1600-900 a.C.).

Verso la fine della valle, spicca il nuraghe Sanu, il ‘gigante’ dell’area archeologica. Lo schema è identico: monotorre con camera voltata a tholos, alto (oggi) sei metri e con diametro di dodici e mezzo: praticamente ‘gemello’ dell’Orruttu. Apprezzerai l’opera muraria curata, realizzata con conci ben sbozzati e filari orizzontali. I blocchi disposti regolarmente contribuiscono a esaltare la sagoma slanciata. Gli scavi hanno portato alla luce una nicchia e una scala, oltre a vari anelli di bronzo a cerchio aperto, con verga circolare sottile ed estremità appuntite. Anche il Sanu è stato frequentato nello stesso lungo periodo dell’Orruttu, con frequentazioni successive. Le dimensioni esprimono grandiosità: considerato il diametro imponente, entrambi dovevano essere in origine molto alti.

A poche decine di metri dal Sanu ammirerai due tombe di Giganti. Le sepolture, usate nell’età del Bronzo, sono state rifrequentate in età storica. Hanno uno schema a ‘testa di toro’, divinizzato dai popoli nuragici: la camera funeraria rettangolare absidata è la testa, lo spazio semicircolare antistante (esedra), destinato ai rituali funerari, sono le corna. Nella tomba A noterai parte dell’esedra: si conservano, sul lato destro, cinque lastroni infissi nel terreno, sul lato sinistro, un solo grande blocco, che funge da stipite dell’ingresso. La camera rettangolare è lunga quasi dieci metri e larga meno di uno. Nella tomba B l’esedra è rappresentata da tre blocchi nel lato sinistro e da quattro di quello destro.

Nostra Signora di Luogosanto

La leggenda racconta che la Vergine Maria sarebbe apparsa a due monaci indicando loro dove trovare le reliquie dei santi Nicola e Trano e suggerendo di erigere in suo onore un santuario fra graniti e querce di capo Soprano, laddove sarebbe poi sorta Locus Santus. La storia dice che la chiesa della Natività della beata Vergine Maria, nota come Nostra Signora di Luogosanto, fu costruita attorno al 1218 dai francescani giunti in Gallura a inizio XIII secolo, che qui edificarono anche uno dei primi monasteri quando san Francesco era ancora in vita. Pochi anni dopo la nascita, nel 1227, papa Onorio III elevò la chiesa alla dignità di basilica minore (prima chiesa gallurese a ricevere l’onorificenza). Nello stesso anno, in campagna, dove furono ritrovate le reliquie dei santi protagonisti della leggenda, sorse il santuario detto Eremo di San Trano. Nel XVIII secolo, quando la basilica fu ricostruita, ricevette il privilegio della porta santa. In passato murata, dagli anni Settanta del XX secolo rappresentata da una porta bronzea, opera dello scultore Luca Luchetti. Attualmente viene aperta dal vescovo ogni sette anni per 12 mesi.

Nostra Signora di Luogosanto, costruita in conci di granito squadrati, ha forme romaniche ed ha mantenuto l’originario impianto duecentesco a tre navate, ampliato nel 1912 inglobando un porticato in origine separato. Caratterizza l’interno una bella Madonna lignea del XVIII secolo, nota come Regina di Gallura. Anche la statua è avvolta dalla leggenda: si racconta sia stata ritrovata su una spiaggia di Arzachena. Molto venerata, è simbolo di Luogosanto, borgo di strette vie e case in granito, particolarmente devoto: ospita 22 santuari, tra abitato e campagna - da non perdere quelle san Quirico, di san Leonardo e del villaggio di Santo Stefano -, ed è stato dichiarato ‘città mariana’ dal 2008. All’interno della basilica sono custodite altre opere d’arte, tra cui gli affreschi del Battesimo di Gesù e dei santi Nicolò e Trano, le statue dell’Addolorata statua e di sant’Antonio abate e un caratteristico crocefisso. Il paese è meta di pellegrinaggi. In particolare a maggio, giugno e l’8 settembre, quando si celebra la natività della patrona con la festa manna. All’apertura della porta santa, i riti sono particolarmente solenni.

Anche la fondazione del paese risale all’arrivo dei francescani. Il loro antico convento, ristrutturato, ospita il Museum Natività beata Vergine Maria, centro di documentazione del Medioevo in Gallura, che ripercorre le vicende storico-religiose ed espone gli ex voto donati nei secoli alla Madonna bambina. Mentre il museo Agnana documenta la storia degli stazzi, tipici insediamenti rurali. Interessanti edifici storici, vicine alle chiese, sono Palazzo di Baldu e il castello di Balaiana.

Sud

Basilica di Santa Croce

È un tempio simbolo dell’integrazione religiosa e socio-culturale del Castello, fulcro di Cagliari tra XIII e XIX secolo. Scoprirai la basilica di santa Croce passeggiando nel cuore della città e accedendo al quartiere medioevale dal bastione saint Remy. Attraversata la torre dell'Elefante e percorrendo il bastione santa Croce in direzione del Ghetto degli Ebrei, ti accorgerai a un tratto di una piazzetta, preceduta da pochi scalini e racchiusa tra le case dell’ex quartiere ebraico: qui si affaccia il prospetto della monumentale basilica, riaperta al culto nel 2007 dopo decenni di restauri. È difficile fotografarne l’intera slanciata facciata, perché potrai indietreggiare solo di pochi passi nel sagrato. La sensazione di maestosità cresce all’interno, a navata unica, voltata a botte e decorata a finti cassettoni da Ludovico Crespi.

Su ciascun lato, tre cappelle, anch’esse voltate a botte e ornate da altari barocchi in marmi policromi, dove sono custoditi sculture e dipinti (XVII-XVIII secolo). Il presbiterio è arricchito da un altare maggiore, dove si erge un Cristo Crocifisso ligneo, e chiuso da un’abside semicircolare, su cui Antonio ha affrescato i santi Maurizio e Lazzaro (1842). La facciata è divisa in due livelli: in quello inferiore si apre il portale, sormontato da un timpano curvo, quello superiore è scandito da lesene e delimitato da due obelischi. Altra particolarità, i due campanili: uno a vela parallelo alla facciata, l’altro, vicino al presbiterio, a torre con canna quadrata e cupolino orientaleggiante. La storia della chiesa, in origine sinagoga, è intrinsecamente legata al borgo, un tempo Giudaria di Cagliari, che giunse alla massima espansione sotto la dominazione aragonese, prima che Ferdinando II bandì dai territori della Corona ebraici e musulmani che non si fossero convertiti al cristianesimo (1492). La sinagoga diventò chiesa cattolica e fu concessa a un’arciconfraternita, i cui nobili membri erano impegnati a confortare i condannati a morte. Nel 1564 l’arcivescovo Parragues, per favorire la crescita culturale cittadina, chiamò i gesuiti, cui furono concesse chiesa e case adiacenti, che diventarono il collegio della compagnia del Gesù. Grazie all’eredità lasciata loro dalla nobildonna Anna Brondo, l’edificio fu ampliato e trasformato radicalmente. Da un’iscrizione in facciata si evince che i lavori si conclusero nel 1661. A fine XVIII secolo papa Clemente XIV sciolse i gesuiti: il complesso passò allo Stato. Infine, a inizio XIX, il re Vittorio Emanuele I elevò la chiesa al rango di basilica magistrale e la affidò all’ordine cavalleresco dei santi Maurizio e Lazzaro, cui appartiene tuttora. Mentre l’ex collegio divenne, nel corso dei secoli, monte di Pietà, stamperia, tribunale, corte d’Appello, facoltà di Lettere e, oggi, di Architettura.

Dolmen di Luras

Sepulturas de zigantes o de paladinos, così gli abitanti di Luras chiamano i dolmen (dal bretone tol-men, tavola di pietra), monumenti funerari costruiti a partire dal Neolitico recente (3500-2700 a.C.), che da queste parti hanno una concentrazione come in nessun’altra parte dell’Isola. Ve ne sono quattro dei 78 totali di tutta la Sardegna, ritrovati nel centro abitato o nelle sue immediate adiacenze: l’allée couverte di Ladas e i dolmen a struttura semplice di Alzoledda, Ciuledda e Billella. Realizzati secondo un sistema trilitico - lastroni orizzontali sorretti da altri verticali - con funzione di sepolture collettive e, insieme, di luogo di culto, si confrontano con esemplari simili baschi, catalani, francesi, corsi e di Minorca.

Inserito in uno splendido scenario naturale, l’allèe couverte di Ladas è costituito da una galleria lunga sei metri e alta più di due, coperta da due grandi lastroni e dotata di abside. La pietra di copertura posteriore ha una superficie di 15 metri quadri; lavorata e levigata. Le pareti sono formate da lastre verticali regolari, affiancate da massi piatti disposti in obliquo. Accanto c’è il dolmen di Ciuledda, simile a quello di Ladas ma con pianta semicircolare e in scala ridotta: è alto meno di un metro. Nelle due sepolture sono stati rinvenuti frammenti ceramici attribuiti al III millennio a.C. Entrambe sorgono su basamenti granitici, da cui il tuo sguardo arriverà sino al massiccio del Limbara. La semplice struttura del dolmen di Alzoledda sorge dentro l’abitato: è rettangolare con camera trapezoidale lunga più di due metri e mezzo e alta più di uno e mezzo. Le pareti laterali sono costituite da lastre sormontate da pietre di rincalzo, mentre la parete di fondo è un unico ortostato piatto che sporge dalle pareti. Tra i vigneti di vermentino e nebiolo, spicca il dolmen di Billella, a pianta rettangolare, lungo due metri e mezzo e alto 80 centimetri. La parete di destra è un lastrone rettangolare, quella di sinistra due massi lavorati poggianti sulla roccia: uno è adattato artificialmente per l’inserimento del lastrone di copertura che è appiattito nella superficie inferiore.

I monumenti megalitici preistorici hanno conferito fama a Luras. Ad essi vanno aggiunti i ruderi di sei nuraghi di età successiva e altre attrazioni naturali e culturali, a partire dagli olivastri millenari. Accanto alla chiesa di san Bartolomeo di Karana, sulle sponde del lago Liscia, tra i tanti, ne sorgono due la cui età è stimata in tre-quattromila anni: sono inseriti tra i venti alberi secolari d’Italia. Al centro del paese ci sono la parrocchiale di Nostra Signora del Rosario, che custodisce pregiati dipinti, e il museo etnografico Galluras, espressione dell’antica cultura locale, che espone il macabro martello usato da s’accabadora per l’eutanasia ante litteram.

Sos Enattos

Una lunga storia da raccontare e scoprire. Sfruttata nell’Antichità, riscoperta a metà Ottocento e passata attraverso varie società concessionarie sino a fine XX secolo, la miniera di sos Enattos, ultimo bacino metallifero del Nuorese a chiudere l’attività (nel 1996), è oggi un ‘gioiello’ di archeologia industriale, che fa parte del parco Geominerario della Sardegna, patrocinato dall’Unesco. Mantiene perfettamente conservati e visitabili pozzi, laverie e altre strutture, immerse in uno splendido paesaggio, in parte incontaminato, che ha per sfondo la catena ‘dolomitica’ del Monte Albo, tra boschi di tassi, lecci, ginepri e macchia mediterranea, habitat di mufloni e aquile reali. Sos Enattos fa parte di un vasto complesso estrattivo all’interno del territorio di Lula, che comprende altre due vicine miniere di galena e argento, Guzzurra e Argentaria, con i rispettivi villaggi dei minatori. In origine i minerali venivano trasportati con carri a buoi fino alla spiaggia di Santa Lucia di Siniscola, e caricati sui bastimenti.

I primi segni di sfruttamento dell’area risalgono addirittura al Neolitico recente, quando si estraeva il talco ‘steatite’, lavorato per realizzare oggetti artistici, tra cui statuette della Dea Madre. Di epoca romana sono pozzi e gallerie, da cui i condannati ad metalla estraevano piombo e argento. I resti dell’insediamento sono rimasti intatti fino al 1960. Altra traccia antica fu la presenza di schiavi ebrei dell’XI secolo che lavoravano nei pozzi per conto di un ricco possidente, tale Nabat. A partire dal XIX secolo gli scavi si concentrarono su vena piombo-zincifera e galena argentifera, poi anche sulla blenda, di cui il territorio era ricchissimo. Il primo punto di svolta della miniera fu il passaggio alla societé anonyme des mines de Malfidano (1905). Il momento di maggior splendore quando fu rilevata dalla Rimisa (1951) che portò il livello produttivo ai massimi storici, grazie all’ammodernamento di vecchie gallerie e alla costruzione di una diga, una nova laveria, magazzini, officina, cabina elettrica, uffici, alloggi e servizi per operai. Nel 1971 fu ultimato il pozzo Rolandi e la proprietà passò all’ente minerario sardo, che cercò di migliorare produzioni e rendimenti. Poi il declino, tra gli scioperi dei minatori, che avevano avuto un precedente già nel 1896, una delle prime proteste operaie in Italia. Presente e futuro del sito sono rivolti alla scienza: a sos Enattos è stato inaugurato nel 2019 il laboratorio di superficie di una infrastruttura di ricerca, in vista della possibilità di ospitare l’Einstein Telescope, l’interferometro che osserva e analizza le onde gravitazionali.

Vicino alla miniera, troverai anche il santuario di san Francesco d’Assisi, da sempre caro a minatori e loro famiglie. La chiesa, costruita nel 1795 e resa celebre dal Premio Nobel Grazia Deledda nei suoi romanzi, è meta di pellegrinaggi da tutta l’lsola in occasione delle feste di inizio maggio e inizio ottobre. Ai fedeli è offerto su filindeu, pasta a fili immersa nel brodo di pecora e formaggio, una delle attrazioni di Lula.

Murats

L’acronimo sta per museo unico regionale dell’arte tessile sarda e racchiude in sé valore e vision di un’istituzione che dal 2002 custodisce, mostra e promuove l’inestimabile patrimonio di un’eccellenza manifatturiera dell’Isola. Il Murats sorge a Samugheo, borgo del Mandrolisai - territorio nel ‘cuore’ della Sardegna diviso fra le province di Oristano e Nuoro - da sempre rinomato per la fiorente produzione tessile. L’‘isolamento’ geografico del paese ha fatto sì che rimanesse vitale una prolifica tradizione artigianale di alta qualità, tramandata di madre in figlia.

L’esposizione, creata grazie al reperimento di manufatti un tempo chiusi nelle cassapanche delle case samughesi e del resto dell’Isola, è allestita in 750 metri quadri di un edificio in periferia. È articolata in tre sale, due al piano terra, dove c’è la collezione permanente, e uno al primo piano, dedicato alle mostre temporanee, che valorizzano varietà, preziosità e anche modernità dell’arte tessile. La collezione permanente è composta da un corpus di manufatti in lana, cotone e lino, provenienti da varie parti del territorio regionale e realizzati in un arco di tempo tra fine XVIII e seconda metà del XX secolo. È compresa anche la famosa collezione Cocco. Ammirerai coperte, lenzuola, biancheria per infanzia e uso quotidiano, copricassapanca, bisacce, abiti tradizionali, capi d’abbigliamento del pastore, quelli samughesi giornalieri e delle feste e strumenti per realizzarli, in particolare telai tradizionali in legno. Tra i pezzi più particolari figurano gli affaciadas, piccolissimi arazzi finemente lavorati che si stendevano nei balconi durante il corpus domini. Mentre per rarità e pregio spiccano cinque settecenteschi tapinos ‘e mortu (su dodici riscontrati in Sardegna), tappeti usati per poggiare le salme durante le veglie funebri. Recuperati in vari centri sardi (specie a Orgosolo), sono caratterizzati da tonalità forti (giallo e nero) e da una complessa simbologia di figure zoomorfe e antropomorfe che accompagnava il defunto nell’estremo viaggio, riscontrata in tessuti associati a sepolture di Anatolia, Perù ed Egitto cristianizzato.

Il museo crea un collegamento dinamico tra comunità, passato, presente e nuove tendenze. Attraverso mostre ed eventi sono proposti spaccati sull’arte contemporanea. A corredo si organizzano workshop, seminari, laboratori, stage e tirocini. Durante la visita è previsto un percorso didattico che consiste in una prova di tessitura. L’evento dell’anno ospitato dal Murats (e da casa Serra nel centro storico) è Tessingiu, la mostra d’arte manifatturiera più attesa in Sardegna insieme alla Fiera dell’artigianato artistico di Mogoro. che ‘tesse’ i fili di ‘saperi’ artigianali appartenenti a luoghi sardi distanti tra loro ma uniti da esperienze culturali comuni.

San Salvatore di Sinis

Il far west sardo in un paese abitato soltanto pochi giorni a settembre, in occasione della Corsa degli Scalzi. San Salvatore di Sinis, frazione di Cabras, da cui dista nove chilometri lungo la strada che porta alla splendida spiaggia is Arutas e all’antica città di Tharros, è un piccolo villaggio sorto in un’area sacra sin da età nuragica e trasformato per oltre due decenni (1967-90), in set di ‘spaghetti western’. La somiglianza a paesaggi americani di frontiera ha fatto sì che fosse affittato a produttori cinematografici, diventando villaggio di Arizona o Nuovo Messico (saloon incluso) in film come ‘Giarrettiera Colt’ (1968). Passato di moda il genere, rimase attrazione per curiosi.

Scenografia nel XX secolo, luogo di culto da millenni. La borgata medioevale, il cui aspetto attuale risale alla dominio spagnolo, deve il nome alla chiesa di san Salvatore, che sorse nel secondo XVII secolo, eretta su un santuario preistorico scavato nella roccia. Sotto la navata sinistra, da una scaletta, accederai all’ipogeo che presenta tracce di frequentazione che arrivano sino al Neolitico. Un corridoio ti condurrà, attraverso ambienti rettangolari e circolari (uno con pozzo), sino alla camera principale dotata di fonte sorgiva: in età nuragica era destinato al culto pagano delle acque. Poi, in epoca punica l’area fu dedicata a Sid, dio guaritore, e sulla stessa scia i romani vi praticarono il culto di Asclepio. Il quadro di romanizzazione del borgo-fantasma è completato da Domu ‘e Cubas, ruderi di terme d’età imperiale con pavimento in mosaico policromo, e da tracce di un granaio (II secolo a.C.). L’ipogeo fu trasformato, dal IV secolo, in santuario paleocristiano in onore del Salvatore: noterai, in due vani, rozzi altari con ai lati un grosso bacino nuragico, riusato come acquasantiera. Sulle pareti di tutte le sale vedrai iscrizioni in puniche, greche, latine e perfino una in arabo, forse risalente ad assalti di predoni islamici nel Medioevo. Ammirerai splendidi affreschi paleocristiani, oltre a graffiti e decorazioni riconducibili a scene di vita quotidiana di epoca romana e a culti pagani.

La chiesa è attorniata da sas cumbessias, piccole e disadorne abitazioni edificate a fine XVII secolo, adibite all’alloggio dei pellegrini durante le novene, in onore di san Salvatore, tra agosto e settembre. Nel ‘ventennio cinematografico’ del borgo, furono parte integrante della scenografia western. Il clou delle celebrazioni inizia all’alba del primo sabato di settembre con la Corsa degli scalzi, uno degli eventi identitari più suggestivi e sentiti della Sardegna. La processione coinvolge oltre 800 curridoris in saio bianco, che accompagnano a piedi nudi su un lungo sterrato il simulacro del santo dalla chiesa di santa Maria Assunta di Cabras alla borgata. E la riportano nella parrocchiale il giorno seguente.

Fortificazioni militari dell'arcipelago della Maddalena

L’arcipelago della Maddalena è terra di frontiera nel nord-est della Sardegna, una posizione strategica che ha segnato il suo destino nello scorrere dei secoli. Lungo la strada che percorre il perimetro costiero della Maddalena, ‘sorella maggiore’ di ben 60 isole e isolotti, ripercorrerai la storia moderna di un luogo teatro, anche nell’Antichità, oltre che negli ultimi tre secoli, di epici scontri navali.

Nella seconda metà del Settecento, con l’avvento dei piemontesi, che la resero una base di appoggio per le navi della Regia marina sarda, La Maddalena, Santo Stefano e altre aree dell’arcipelago furono ‘guarnite’ da fortificazioni: la Torre quadrata, il forte San Vittorio, detto la Guardia vecchia, e altri forti: Sant’Andrea, Balbiano, Sant’Agostino e Santa Teresa (detto anche Sant’Elmo). Tutti visibili dal mare, per scoraggiare gli attacchi dei pirati.

A iniziare dalla prima parte del XIX secolo, il sistema difensivo fu implementato con il forte Carlo Felice o ‘Camicia’, a protezione del passaggio maddalenino della Moneta, e col forte San Giorgio a Santo Stefano. Le strutture col passare del tempo furono sostituite. Più recenti sono altre postazioni d’avvistamento e fortificazioni, nate dalla fine dell’Ottocento sino alle guerre mondiali. Furono costruite batterie di maggiore potenza, che occupano posizioni rivolte verso il mare, come: Nido d’Aquila e Punta Tegge nella parte sud-occidentale, Punta Rossa a Caprera, e sulla terraferma a Punta Sardegna (Palau) e a Capo Tre Monti (Arzachena). Di rilevanza strategica sono anche altre alture maddalenine fortificate, come Guardia Vecchia e Trinita, che domina la splendida spiaggia omonima.

L’arcipelago, oggi parco nazionale, nasconde suggestive tracce di battaglie: mimetizzate tra le rocce troverai postazioni antiaeree. A partire dalla splendida cala Spalmatore e in un’altra infinità di località strategiche: Carlotto, Zavagli, Zanotto, Pietrajaccio, Candeo, Messa del Cervo, Poggio Baccà, isola del Porco, Teialone e punta dello Zucchero. Tutti siti oggi visitabili grazie alle guide del parco.