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Sagama

Si distende su una collina calcarea che domina la vallata Badd’e Sagama punteggiata da vegetazione variopinta che contrasta con la pietra basaltica scura. Sagama è un paesino agropastorale di 200 abitanti della Planargia, Comune autonomo dal 1946, sorto all’interno di una zona fertile e rigogliosa, ricoperta da boschi e vigneti e irrorata da sorgenti, meta in autunno di numerosi cercatori di funghi. L’abitato si dispone intorno al ‘tesoro di Sagama’, la parrocchiale di San Gabriele arcangelo, costruita nel 1604 sul modello ‘manieristico’ di San Giacomo di Sassari. L’aula a navata unica è voltata a botte. La facciata è impostata su tre ordini scanditi da cornicioni, cui si somma un timpano curvilineo. Sul lato sinistro una campanile a tre livelli che termina con un cupolino ‘a cipolla’, aggiunto successivamente. All’interno della chiesa è custodita la preziosa statua lignea del santo, dipinti di scuola settecentesca, un pulpito seicentesco e altari lignei. Il patrono è celebrato il 24 marzo e a fine ottobre. Da visitare anche le chiese di santa Croce, nel cui piazzale a metà gennaio si accendono i fuochi di Sant’Antonio abate, e della Vergine del Carmelo, festeggiata a metà luglio.

Abbondanza d’acqua e fertilità hanno sin dalla preistoria attratto insediamenti, in particolare in età nuragica. Nel XIX secolo lo storico sardo Giovanni Spano contava una corona di nove nuraghi intorno all’abitato. Oggi sono visibili il Funtanedda nella vallata Badde Sagama, con pianta poligonale, il monotorre Molineddu, a pianta circolare, vicino al protonuraghe omonimo, il Pascialzos, i resti del Nuratolu i e il monotorre Muristene, all’interno dell’abitato, vicino alla parrocchiale, insediamento preistorico da cui si originò il paese. Troverai anche esempi di architetture funerarie: la tomba di Giganti su Crasti Covaccadu, in località Terra d’Onore, e le tombe di Triganino sa Costa-Triganinu e Fakkiganu. Di epoca precedente è attestato un alleè couverte, al confine con Tinnura e avvistato un menhir in località Mura Pianu, detto sa Pedra Marmurada. Secondo testimonianze orali, nel territorio sagamese erano presenti anche domus de Janas. Di epoca romana, quando il centro fu dotato di mura, di cui noterai i resti, sono le sepolture In località Murenda, oltre a reperti quali embrici, frammenti di bronzo e monete risalenti all’impero di Marco Aurelio.

San Giovanni di Sinis

Un tempo borgo di pescatori, oggi rinomata località balneare. San Giovanni, frazione di Cabras a sud della penisola del Sinis tutelata dall’area marina, si trova lungo la strada che conduce all’antica città di Tharros e, più a sud, allo scenografico capo San Marco. La spiaggia si estende per circa due chilometri fra la colonia fenicio-punica (poi romana) e Funtana Meiga, con un parcheggio adatto anche ai camper. Si affaccia su un m​are cristallino con fondale ricco di specie ittiche e flora marina, paradiso per diving, snorkeling e pesca subacquea. ​Venti costanti contribuiscono a renderlo meta di appassionati di surf.

Il paesaggio di dune di sabbia è inframmezzato da rocce di arenaria e basalto e dalla suggestiva torre spagnola, intitolata a san Giovanni e costruita da Filippo II tra 1580 e 1610 per far fronte alle incursioni piratesche. Si erge a 500 metri dall’arenile e si raggiunge passeggiando lungo una poco impegnativa salita.

Prima di diventare centro turistico molto apprezzato, San Giovanni di Sinis era un villaggio di pescatori, famoso per caratteristiche capanne di giunco, ​che fino alla seconda guerra mondiale si allineavano l’una accanto all’altra sulla costa oristanese. Oggi è un paesello con bar, ristoranti e strutture ricettive, animato d’estate. Nella piazza centrale si trova una piccola chiesa paleocristiana, risalente al V secolo, in principio a croce greca e in seguito restaurata a croce latina.

Nel territorio di Cabras, a est di Tharros c’è la s​piaggia di mare Morto, tranquillo approdo per imbarcazioni da diporto, mentre a ovest si stende un chilometro di rocce. Nei 30 chilometri di costa dell’area protetta, che comprende anche l’isola di Mal di Ventre, si immergono nel mare turchese spiagge di finissimi granelli di quarzo, le tre meraviglie di Is Arutas, Maimoni e Mari Ermi. Lungo la strada per Is Arutas, potrai dare un tocco diverso alla vacanza, passando per San Salvatore di Sinis, scenario di film western e meta della processione della Corsa degli Scalzi. Spostandosi da falesie e dune di sabbia verso l’entroterra ecco le lagune: lo stagno di Cabras e Mistras, punti di sosta per gli amanti del birdwatching. In città è imperdibile una visita al Civico museo archeologico, dove è custodita parte della più grande scoperta archeologica di fine XX secolo nel Mediterraneo: le statue di pietra dei Giganti di Mont’e Prama, simbolo identitario della Sardegna.

Nughedu Santa Vittoria

Abbarbicato su un costone di roccia vulcanica, tra querce, roverelle e macchia mediterranea, si affaccia sullo splendido scenario del lago Omodeo, a ridosso dell’imponente Santa Vittoria, monte che è all’origine del toponimo insieme a nocetum, a indicare una zona in passato ricca di alberi di noce. Nughedu Santa Vittoria, piccolo centro agricolo di 500 abitanti del Barigadu, ai confini nord-orientali della provincia di Oristano, offre sorprendenti tratti naturalistici, specie spettacolari guglie e massi granitici dalle forme bizzarre che svettano tra verde, sorgenti e torrenti. Il monte è impreziosito dal bosco di lecci e sughere secolari d’Assai, che ospita un’oasi faunistica con cervi e daini. In località Alamoju c’è il museo oasi d’Assai, dove sono esposti mammiferi e volatili impagliati, tra cui l’aquila reale, una xiloteca, una collezione di minerali e fossili ed è riprodotto un ‘angolo’ di foresta.

Nel nucleo più antico del paese, Comune dal 1947, tra case cinquecentesche ‘spagnoleggianti’, spicca la parrocchiale di san Giacomo (XVI secolo), la cui facciata è caratterizzata da splendido rosone e portale tardo-manieristico. L’interno con volta a crociera segue la tradizione gotico-catalana: l’unica navata ha archi a sesto acuto e cappelle voltate a botte. A due chilometri dall’abitato, dove in passato sorgeva un antico monastero benedettino (forse dell’XI secolo), oggi si trova il novenario di san Basilio magno. La chiesa campestre in stile tardo gotico-catalano (del primo trentennio del XVII secolo), è arricchita da un porticato sorretto da colonne con raffinati capitelli in trachite e un loggiato circondato da quindici muristenes, modesti alloggi che ospitano i pellegrini durante i novenari.

Le origini di Nughedu sono preistoriche. Al Neolitico risalgono le necropoli di s’Angrone e, vicino al paese, di sas Arzolas de Goi, costituita da cinque domus de Janas con in tutto 18 cellette scavate nella roccia. All’interno ammirerai teste di toro scolpite e dipinte con l’ocra, a simboleggiare il rinnovarsi della vita. Il territorio fu frequentato anche successivamente come dimostrano vari nuraghi. Il più caratteristico è il protonuraghe su Casteddu, con attorno un villaggio di capanne e una struttura megalitica che per conformazione richiama sia i dolmen che le tombe di Giganti. Antiche tradizioni anche in cucina: assaporerai piatti genuini e gustosi in occasione delle feste. In estate si concentrano le celebrazioni: del patrono a fine luglio, di santa Vittoria a inizio agosto e di san Basilio a inizio settembre. In estate il paese si trasforma in un grande ristorante sotto le stelle in occasione del social eating: la sala è il sagrato di san Giacomo, cuochi e camerieri sono gli abitanti del paese, diretti da chef stellati. In autunno gli ospiti sono ricevuti direttamente nelle case. Ogni anno Nughedu rientra nel circuito musicale del Dromos Festival.

Casa Aragonese

Gli elementi strutturali sono simili a quelli delle più conosciute dimore padronali ‘storiche’ della Sardegna, ovvero le case campidanesi a lollas, cioè ‘a corte’. La differenza consiste nel fatto che qui, nella Casa Aragonese di Fordongianus, sono disposti in maniera completamente diversa. Il cortile è sul retro e non immediatamente accessibile varcando il portale. Il loggiato non è ‘nascosto’ dalle mura perimetrali: lo ammirerai davanti all’ingresso, elegante e accogliente con le sue sette colonne e la copertura a spiovente in tegole. L’altra grande differenza con le tipiche case campidanesi consiste nel materiale di costruzione: così come vari altri edifici di Fordongianus, tra cui le chiese di San Pietro e San Lussorio, la ‘casa aragonese’ fu eretta in trachite rossa.

La realizzazione si colloca tra la fine XVI e inizio XVII secolo. Il portico, in realtà, è stato ricostruito in tempi recenti con la tecnica dell’anastilosi, riusando le parti originali. La struttura si estende in lunghezza, con una serie di tredici ambienti affiancati e comunicanti. Le case, a dire il vero, sarebbero due: Casa Sanna e Casa Madeddu, dal nome degli ultimi proprietari. La parte ‘frontale’, comprendente il portico e sette stanze – tre nella parte anteriore e quattro addossate sul retro – corrisponde a Casa Sanna. Una porta angolare collega le due abitazioni e ti condurrà negli spazi di Casa Madeddu, con quattro vani al piano terra e due stanze soppalcate sopra le camere anteriori. La casa fu ‘separata’ sul finire del XIX secolo murando la porta ad angolo.

Scorgerai elementi gotico-aragonesi nelle decorazioni degli arredi sia nel loggiato che all’interno. La porta d’ingresso è sormontata da un arco modanato, con ai lati colonnine con capitelli intagliati. Nei portalini interni fa bella mostra il caratteristico arco inflesso, mentre le cornici di nicchie e finestre presentano losanghe e punte di diamante in rilievo. Nelle sale compaiono armadi a muro e sedili addossati alle finestre. Nel cortile, accessibile anche da ingresso secondario, ci sono l’orto-giardino, la stalla e un ambiente destinato alla sosta dei carri agricoli.

Oggi la ‘casa’ è adibita a spazio espositivo: spicca una serie di opere in rete metallica, raffiguranti figure femminili impegnate nei lavori domestici. Periodicamente vengono ospitate mostre temporanee. Terminata la visita, andrai alla scoperta degli altri gioielli custoditi nel territorio dell’antica Forum Traiani: immancabile la visita alle terme, note probabilmente già dalla preistoria e valorizzate in epoca romana. Il patrimonio architettonico comprende la cinquecentesca parrocchiale di San Pietro apostolo e, a un chilometro dal paese, la chiesa medievale dedicata a San Lussorio, dove potrai ammirare anche la cripta con la presunta tomba del martire e le cumbessias dove alloggiavano i pellegrini.

Torregrande

Tre chilometri di sabbia dorata che vanno dal porto turistico alla foce del Tirso, bordati da alte palme e da un bellissimo lungomare, un tratto di litorale ideale per una vacanza all’insegna di nuotate e immersioni, footing e sport, passeggiate a cavallo, in bici o coi pattini, serate di musica e allegria. Torregrande è la spiaggia di Oristano, da cui dista dieci chilometri, e deve il nome alla piazza principale del piccolo centro turistico, fondato da agricoltori e pescatori. Qui si erge l’omonima torre spagnola, la più grande della Sardegna, costruita fra 1542 e 1572. É una località molto animata da locali e bar, concerti e spettacoli, ristoranti e sagre, mostre e mercatini.

Se sei appassionato di equitazione, i vicini maneggi ti offrono passeggiate a cavallo sulla spiaggia, stupende al tramonto. Mentre i fondali limpidi e ricchi di flora e fauna marina renderanno le tue immersioni u​n documentario. La spiaggia è stata premiata più volte con la Bandiera Blu di Legambiente e ospita l’istituto per l’ambiente marino costiero del Consiglio nazionale delle Ricerche (CNR).

L’ampia lingua di sabbia è dotata di tutti i comfort: accessibile a diversamente abili, ampio parcheggio, adatto ai camper, chioschi e attrezzatura balneare, giochi per bambini, scuola di vela e diving. Lungo l’arenile puoi praticare beach volley e beach tennis e noleggiare pedalò, barche e windsurf. Il mare è quasi sempre calmo ma degrada rapidamente: family friendly ma con attenzione per i più piccoli. La moderna marina di Torregrande è il porto turistico di Oristano, al centro del golfo, punto di partenza per escursioni dal suggestivo capo san Marco all’area marina del Sinis, passando per magnifiche spiagge: San Giovanni, Maimoni, Is Arutas e Mari Ermi (nel territorio di Cabras) e Putzu Idu (in quello di San Vero Milis).

La torre è la maggiore che la dominazione spagnola abbia lasciato in eredità in Sardegna, ma anche il centro abitato di Oristano ha ampie tracce di fortificazioni prima medioevali poi aragonesi, in particolare la torre di Mariano (o san Cristoforo) in piazza Roma, il più significativo dei residui della cinta muraria, che percorreva la capitale del giudicato d’Arborea. Datata al 1290 e alta 28 metri, fu costruita in blocchi di arenaria di Tharros da maestranze pisane per volontà del giudice Mariano II, poi ‘ritoccata’ dalla Corona d’Aragona.

San Nicolò d'Arcidano

Si adagia in un tratto pianeggiante attraversato da Flumini Mannu e rio Sitzerri e chiuso tra le catene del monte Linas e del monte Arci, a pochi minuti dalla marina di Arborea e a meno di mezzora dalle magnifiche e selvagge spiagge della Costa Verde (Arbus). San Nicolò d’Arcidano è un paese di duemila abitanti al confine della provincia di Oristano con il sud Sardegna, le cui risorse principali sono agricoltura e artigianato, ben rappresentate dall’evento Arcidano produce, a meta agosto esposizione e vendita di prodotti agroalimentari e artigianali. Particolarmente rinomata è la viticoltura, grazie ai vitigni di bovale e su muristellu, dai quali derivano vini di pregio. All’interno del paese c’è sa mizza de fagoi, antica fonte che un tempo dissetava pastori e viandanti.

Nel punto più alto, nonché centro dell’abitato, sorge la parrocchiale di San Nicolò vescovo, la cui origine non è certa. L’ultima ricostruzione dovrebbe essere attorno al 1660, di certo prima del 1763: fu eretta una facciata dalle linee neoclassiche con la fronte a tempio greco fatto di colonne che sorreggono un timpano triangolare. Il patrono, da cui deriva il nome del centro, è celebrato a settembre, in ‘apertura’ di vendemmia. Altre feste religiose sono, a fine giugno, per sant’Isidoro, protettore dei contadini, e a fine luglio per Santa Margherita. Nella cima oggi occupata dalla parrocchiale, un tempo si ergeva il nuragh’e Luxia, uno dei sette nuraghi del territorio arcidanese. In gran parte sono ruderi, il più importante è il Peppi Tzappus, polilobato, vicino al quale c’è il Nuracciolu. Entrambi sono in località is Codinas, dove sono evidenti anche le tracce (mura in mattoni) di epoca romana. Probabile che ci fossero ville, mentre a San Pantaleo e Santa Barbara sono state ritrovate urne funerarie. Romano è anche il cippo che tiene la croce posta nella strada all’uscita del paese verso Uras. Le testimonianze romane sono evidenti grazie alla vicinanza con l’antica città di Neapolis, dove già da età fenicio-punica esisteva un rilevante porto commerciale. A partire dal XV secolo divenne approdo per le incursioni dei pirati barbareschi che saccheggiavano il territorio e costrinsero ad abbandonare molti centri, tra cui la stessa Architano, che significherebbe ‘sulla via dell’Arci’, ovvero la strada che portava al monte Arci dove nella preistoria si estraeva e commercializzava la preziosissima ossidiana. Sotto il giudicato d’Arborea, erano due i villaggi: Architano Magno, con chiesa dedicata a san Nicolò, e Architano Parvo abbandonato nella seconda metà del XIV secolo. Il nome Arcidano tornò a metà del XVII secolo, quando un nucleo di circa 60 famiglie provenienti da Samassi e Furtei rifondarono il paese. I primi documenti che lo attestano sono del 1665.

Santa Maria Assunta - Duomo di Oristano

È chiesa ‘madre’ dell’arcidiocesi arborense. La cattedrale di santa Maria Assunta, elevata da Pio XII a rango di basilica minore, è il duomo di Oristano. Sorse su una struttura paleobizantina e su sepolture bizantine (VI-VII secolo), emerse nel sagrato della chiesa. Secondo la tradizione, nel 1070, la capitale del giudicato d’Arborea fu trasferita da Tharros a Oristano. Qualche decennio dopo (1131) è documentata, già come cattedrale, l’ecclesia sanctae Mariae de Orestano. I 16 fusti di marmo custoditi nel seminario tridentino, che si affaccia nel cortile del duomo di fronte alla chiesa della Santissima Trinità (XVIII-XIX secolo), fanno ipotizzare che l’originario impianto romanico di santa Maria (XI-XII secolo) avesse tre navate: forse otto colonne per parte dividevano l’aula. Nel primo trentennio del XIII secolo la chiesa fu ‘rivisitata’ e a metà del XIV fu aggiunto il transetto con quattro cappelle in stile gotico-italiano, tra cui quella della Madonna del Rimedio, oggi tra i pochissimi elementi originari superstiti.

I lavori risparmiarono anche l’archivietto, realizzato nel 1626 come cappella presbiteriale, opera in cui convivono armoniosamente tradizione tardogotica e classicismo rinascimentale. Al XIX secolo risalgono i due ‘cappelloni neoclassici’, di san Luigi Gonzaga e san Giovanni Nepomuceno, nelle testate del transetto, ornati da sculture di Andrea Galassi. L’interno è eterogeneo: eleganti schemi barocchi si alternano a forme neoclassiche, fino al gusto contemporaneo. Su un’unica ampia navata voltata a botte si aprono tre cappelle per lato. L’abside è rettangolare. Il presbiterio è rialzato e chiuso da una balaustra marmorea con due leoni alla base della scala d’accesso. Innumerevoli opere d’arte arricchiscono il tempio: la statua lignea dell’Annunziata e quella marmorea della Madonna del Rimedio (XIV secolo), l’altare barocco e il retablo in legno policromo (XVIII secolo), la tela tonda raffigurante l’Assunta e due rettangolari del Marghinotti (Adorazione dei Magi e Ultima cena). Il tesoro del duomo comprende anche argenteria, paramenti sacri e corali miniati. L’esterno è una sovrapposizione di stili. Sul lato sinistro si erge il campanile a pianta ottagonale, coperto da una piccola cupola ‘a cipolla’, rivestita in maiolica.

A partire dal duomo visiterai il centro storico, dove a carnevale va in scena la celebre Sartiglia. Protagonista delle vicende sarde dall’XI secolo, Oristano era protetta da mura e fortificazioni, come la maestosa torre di Mariano. Ammirerai edifici di pregio, come palazzo Corrias Carta, il palazzo arcivescovile e le chiese, neoclassica di san Francesco e gotica di santa Chiara. Da non perdere monumento della giudicessa Eleonora e l’Antiquarium arborense.

GeoMuseo del Monte Arci

Mette in mostra migliaia di minerali e fossili sui quali è ‘scritta’ l’evoluzione geologica dell’Isola e in particolare della Marmilla, una storia complessa che va da oltre 20 milioni fino a circa due milioni di anni fa. Allestito nei locali dell’ex convento dei padri cappuccini, monumentale monastero di metà XVII secolo – cui è annessa la chiesa di san Francesco - il Geomuseo del monte Arci di Masullas è un unicum in Sardegna che nasce dalla paziente attività di raccolta e catalogazione di Vincenzo Incani e alle collezioni mineralogiche e paleontologiche che ne sono derivate. Ammirerai esemplari di pietre con fossili di antichissimi animali marini, diorami che riproducono l’attività del vulcano e vari minerali, in particolare diaspri variopinti (rocce d’ambiente marino), formati durante le eruzioni del ‘vecchio vulcano’ del monte Arci. Nella ‘sala flù’ ti abbaglieranno spettacolari minerali dai colori fluorescenti.

All’inizio del percorso museale compirai un breve excursus sulla formazione delle terre emerse nel mondo per arrivare alla formazione del Mediterraneo e della Sardegna, per poi passare all’evoluzione del monte Arci, in origine vulcano attivissimo, nella preistoria centro di raccolta e lavorazione dell’ossidiana, oggi dolce rilievo ricoperto di verde, divenuto parco regionale. In origine il Mediterraneo era il piccolo continente di Alkapeca, che a partire da 23 milioni di anni fa si frammentò in quattro piccole zolle: nella zolla sarda cominciarono a formarsi fratture, che causarono una lunga e profonda depressione (rifting), dal golfo di Cagliari a quello dell’Asinara. Il mare trasformò l’isola in arcipelago: attraverso le fratture furono eruttate sul fondo ingenti quantità di magma basaltico. Nella zona dell’attuale Arci, si formò un enorme vulcano sottomarino, esteso per 30 chilometri. Le eruzioni hanno dato origine alle pillow-lava, che potrai notare in su Carongiu de Fanari, alla periferia di Masullas. Nel museo lo testimoniano, oltre ai fossili di pesci e ai diaspri, anche minerali di origine idrotermale, come quarzo, calcedonio, fluorite e calcite in grandi cristalli.

Dopo una stasi, l’attività eruttiva riprese violenta 5 milioni di anni fa: i vecchi rilievi furono ricoperti da imponenti strati di lava di vari materiali. Alle colate di rioliti si deve la deposizione della preziosissima ossidiana, che fece diventare il monte Arci centro del Mediterraneo già dal VI millennio a.C. All’‘oro nero della preistoria’, sono dedicati il parco dell’ossidiana di Conca ‘e Cannas e il museo dell’ossidiana della vicina Pau, da visitare in combinazione col Geomuseo. Prima che il vulcano si spegnesse definitivamente, un milione e 800 mila anni fa, si riversarono colate di basalti che formarono i grandi tavolati delle giare, tipiche dell’attuale paesaggio della Marmilla, e in particolare di Masullas, che fa parte dei borghi autentici d’Italia grazie ad architettura urbana, paesaggi incantevoli, archeologia, tradizioni e prelibatezze.

Oasi naturalistica di Assai

Un ‘polmone verde’ formato da distese di leccete e sugherete, inframmezzate da guglie granitiche, che una volta forniva carbone a tutta la Sardegna, oggi custodisce e protegge una patrimonio floro-faunistico, oltre a ospitare un interessante museo. L’oasi di Assai si estende per quasi mille ettari tra i territori di Neoneli e Nughedu Santa Vittoria. Un’antica carbonaia è testimone dell’attività che fino al XX secolo era svolta nell’area, assieme alla produzione di sughero. Nel 1983 fu istituito un cantiere forestale e Assai divenne oasi permanente di protezione faunistica. Oggi la popolano cervi sardi, cinghiali, daini, gatti selvatici e martore. Tra gli uccelli, potresti osservare alcuni endemismi sardo-corsi, come lo sparviere e il picchio rosso maggiore, oltre a passero solitario, corvo imperiale e pernice sarda. Da pochi anni, nell’oasi ha ripreso a nidificare anche l’aquila reale.

Nel cuore dell’area naturalistica potrai visitare il museo faunistico ospitato in un antico rifugio usato dai pastori. L’esposizione contiene esemplari impagliati della fauna locale – mammiferi, volatili e rapaci -, tra i quali spicca un’aquila reale inserita dentro un diorama che rappresenta uno scorcio della foresta. È presente anche una collezione di minerali e fossili provenienti da tutta l’Isola. All’esterno, oltre alla carbonaia, potrai visitare anche un caratteristico pinnettu.

La flora non è meno affascinante: ammirerai specie tipiche della macchia mediterranea, come corbezzolo, edera e lentisco, oltre a fiori, in particolare ciclamino, biancospino, ginestra, lavanda e orchidea selvatica. I boschi sono attraversati da sentieri sterrati, che percorrerai a piedi, in mountain bike o a cavallo, sui quali si aprono numerosi punti panoramici. Uno passa per la vedetta di punta Borta Melone, a quasi 900 metri di altitudine, poi per un laghetto artificiale, infine giunge al monumento naturale sa Crabarissa. È una roccia granitica alta circa 50 metri, la cui forma ricorda quella di una donna in abito tradizionale sardo. La circonda un alone di leggenda: la Crabarissa – termine che indicherebbe una donna originaria di Cabras – sarebbe stata una fanciulla fidanzata con un pastore di Austis. Quando l’uomo lasciò il paese del Sinis per tornare nel suo villaggio d’origine, lei decise di attenderne il ritorno. Rendendosi conto che i giorni passavano senza avere sue notizie, si recò ad Austis, dove scoprì che il pastore nel frattempo si era sposato con un’altra donna. Durante il viaggio di ritorno, il troppo dolore la fece pietrificare.

Simaxis

Si distende accanto alla riva sinistra del rio sant’Elena, affluente del Tirso, in un tratto di fertile pianura, da sempre coltivata a grano e di recente anche a riso. Simaxis è un paese del Campidano settentrionale di duemila e 300 abitanti. L’origine è medioevale: fu il principale centro della curatoria omonima all’interno del giudicato d’Arborea. Il villaggio originario fu distrutto dall’invasione francese del 1637 e ripopolato a metà XIX secolo quando le bonifiche risanarono i terreni divenuti paludosi e l’attività agricola riprese a pieno regime. A testimoniarne la floridezza a novembre si svolge la giornata del riso. Altro simbolo agricolo è l’ottocentesco monte granatico. Originale il carnevale in chiave rétro, sa Coja de tziu Damus, che prevede un matrimonio celebrato da un attore che impersona il sindaco, la popolazione partecipa in abiti tradizionali.

La vicinanza del parco del monte Arci, unico giacimento di ossidiana dell’Isola, ‘oro nero’ della preistoria nel Mediterraneo, e la fertilità del territorio, irrorato da numerose fonti, ha da sempre attirato genti nel territorio. Vicino al fiume sono state rinvenute tracce di due villaggi del Neolitico recente (cultura di Ozieri), da cui provengono reperti riproducenti la dea Madre. L’area fu fittamente popolata anche in età nuragica e poi in quelle fenicio-punica e romana. L’età bizantina è richiamata da tre chiese intitolate a culti e santi del mondo cristiano orientale: a due chilometri dal paese, nella frazione di San Vero Congius – villaggio attestato sin dal 1140 come Sant’Eru di Simagis e fino a inizio XX secolo Comune autonomo – sorgono i ruderi delle chiese di san Nicolò di Mira e dell’Angelo, con cupola emisferica, e l’antica parrocchiale di san Teodoro di Amasea, santo militare della tradizione bizantina, databile fra VII e IX secolo, con pianta cruciforme e bracci voltati a botte, il cui incrocio è sormontato da una cupola. La chiesa ha subito vari restauri. Al centro del paese spicca la nuova parrocchiale di san Simmaco papa, consacrata nel 1833. Il papa sarebbe nato a Simaxis, tradizione in realtà fondata solo sull’assonanza tra i nomi di santo e paese. Il Liber Pontificalis, unico documento storico che parla di Simmaco, indica solo le date del pontificato (498-514). In un’epistola, però, lo stesso santo ribadisce la sua origine sarda: fu il secondo papa sardo dopo sant’Ilario. La chiesa sorse nel presunto sito della casa paterna del santo. La facciata di ispirazione neoclassica è conclusa da un timpano con al centro un lunotto chiuso da una vetrata a spicchi colorati. L’interno è costituito da un’unica navata con tre cappelle per lato. San Simmaco si celebra a fine gennaio e a metà luglio, rispettivamente nascita e morte del santo.