Casa Deriu
Tre musei in uno, tre livelli con spazi espositivi diversi tra loro, tutti ugualmente interessanti e in grado di far compiere un viaggio nel tempo. Casa Deriu è uno degli edifici più caratteristici della zona nota come sa Piatta di Bosa – l’area del centro storico vicina al fiume Temo -, al cui interno, accorpando preesistenti abitazioni, è nato un museo che racchiude lo spirito artistico ed estetico della cittadina tra XIX e XX secolo. All’ingresso, ai lati dei due portoni, noterai coppie di colonne in trachite rossa locale, mentre nell’androne ammirerai tre arcate, tipiche delle abitazioni bosane di un tempo. Una conduce ai magazzini, la seconda alle scale e la terza ha funzione ornamentale. Dal piano terra, dove in origine si trovavano le cantine, salirai la scalinata in pietra che conduce al primo piano: qui sono ospitate esposizioni temporanee incentrate su tradizioni, usi e costumi del borgo.
Al secondo piano tornerai indietro di due secoli: è interamente arredato come un appartamento signorile del XIX secolo. La visita si svolge tramite un percorso circolare, dall’ingresso accederai al salotto, con pavimento in parquet, decorato con motivi geometrici che riprendono gli ornati del soffitto a finti cassettoni. L’ambiente comunica con la camera da letto, con pavimento in maioliche, dove si conserva il guardaroba originale. Passerai poi alla sala da pranzo e da qui, attraverso un corridoio con tramezzi in legno, nuovamente al pianerottolo.
Al terzo piano è ospitata una mostra permanente dedicata alla vena artistica di Melkiorre Melis, nato a Bosa nel 1889. Oltre ai quadri, ammirerai anche oggetti e manufatti (mobili, disegni e ceramiche), incluse le opere risalenti al ‘periodo africano’, ispirato dall’esperienza come direttore della ‘scuola d’arte e mestieri indigeni’ di Tripoli. L’esposizione si articola in cinque temi: la sala d’ingresso è dedicata alla città natale, con riferimenti a Carnevale e lavorazione del filet, il ricamo a merletto tipico di Bosa. La ‘sala della Libia’ espone pannelli, suppellettili e tele relative all’attività africana. Un apposito ambiente custodisce l’archivio della produzione grafica e illustrativa; la fase artistica del Dopoguerra è conservata nella ‘sala dei sardi’, con rappresentazioni di pastori e sagre, e nella ‘saletta dei nuragici’, con opere dove Melis ‘reinterpretò’ a suo modo la mitologia isolana.
L’edificio di fronte a Casa Deriu, parte dello stesso sistema museale, ospita la pinacoteca Atza, che espone le tele del pittore Antonio Atza, tra i principali artisti sardi del Dopoguerra, bosano d’adozione. Approfondirai la storia di Bosa visitando altri tre simboli cittadini, il castello di Serravalle, che domina dall’alto il borgo, la chiesa di San Pietro extra muros, la più antica chiesa romanica dell'Isola, e le concerie, sedi della più antica attività manifatturiera locale: la conciatura delle pelli.
Necropoli di Puttu Codinu
Contornate da colline e valli, dove scorre il fiume Temo, sono state scavate dalle popolazioni neolitiche in due affioramenti calcarei. Le nove domus de Janas della necropoli di Puttu Codinu rappresentano - insieme all’insediamento del nuraghe Appiu - il sito archeologico più famoso di Villanova Monteleone, a cinque chilometri dal borgo, lungo la statale 292 che conduce a Monteleone Rocca Doria, nell’entroterra algherese. Dal 2025, assieme ad altre 16 necropoli, fanno parte dei siti sardi Patrimonio dell'Umanità dell'Unesco. Il nome di queste ‘case dei morti’, intitolate alle fate (janas), ma in realtà tombe collettive di un villaggio che doveva sorgere vicino, significa ‘pozzo di roccia’ ed è databile a partire dal 3500 a.C. (Neolitico finale) alla fine del III millennio (Eneolitico), con frequentazioni, attestate dai reperti, sino al 1800-1600 a.C. (Bronzo antico).
In un affioramento roccioso si aprono due ipogei funerari, nel secondo tutti gli altri. Le sepolture sono precedute da brevi corridoi (dromoi), che si concludono nelle tombe II, VIII, IX in un padiglione dove si apre il portello d’accesso. Si sviluppano in senso longitudinale con schema a T attraverso una serie di ambienti (anticella, cella principale e vani laterali), nei quali venivano deposti defunti e loro corredi. Particolarmente interessante per ampiezza e soluzioni costruttive è la domus VIII, che mostra la riproduzione nella roccia di elementi architettonici: l’anticella ‘simula’ sul soffitto un tetto ligneo, la cella maggiore richiama la copertura a doppio spiovente con trave e travetti, tipica delle capanne, e le pareti presentano motivi decorativi a lesene, fasce e zoccoli come le abitazioni preistoriche. Noterai anche affascinanti elementi simbolici: una ‘falsa porta’ (rappresentazione dell’aldilà) incorniciata da due stipiti e architrave, lunghe corna ‘a fascia’, riquadri e protomi taurine, che ritornano anche in altre tombe e richiamano il dio Toro. Insieme alla dea Madre, della quale nella tomba è stata ritrovata una statuetta, erano simboli di fertilità, comuni a varie religioni del Mediterraneo. Nell’attigua tomba IX, sulla parete del dromos, si distinguono due coppelle emisferiche e al centro della stanza principale un focolare rituale. All’esterno della domus VII, osserverai due menhir ‘interpretati’ come segnacoli delle sepolture. Sui generis la tomba VI: ha due ingressi perché in origine erano due ipogei, poi unificati.
Villanova è dominata dal monte Minerva, spettacolare vulcano spento e coperto da una foresta, dove ammirerai un altro sepolcreto a domus de Janas. Mentre nel bosco del monte Cuccu scoprirai un parco archeologico che racchiude un complesso dell’età del Ferro (900-800 a.C.), formato dal nuraghe trilobato Appiu, un villaggio di circa duecento capanne, un altro nuraghe monotorre e una tomba di Giganti con due dolmen. Vicini anche un circolo megalitico e un tempio a megaron. Altri imperdibili edifici nuragici villanovesi sono la tomba di Giganti di Laccaneddu e le torri sui monti Lua e sa Rughe.
Teatro Civico - Alghero
È l’unico in Sardegna, uno dei pochissimi in Italia, ad aver conservato la struttura portante in legno e, nonostante le particolarità del suo aspetto esterno, si inserisce perfettamente nel tessuto urbano di Alghero. Il teatro civico, conosciuto anche come teatro Gavino Ballero, si affaccia tra palazzotti di impronta catalana in piazza del Teatro, adiacente allo storico palazzo della curia vescovile. Non a caso la cittadinanza locale la chiama plaça del bisbe, cioè la ‘piazza del vescovo’. Durante il Medioevo vi sorgeva il mercato delle granaglie, come testimoniato da tracce di grandi silos rinvenute, durante lavori di restauro, nel banco roccioso sul quale fu costruito il teatro.
L’area fu poi destinata alla nascita di un teatro a seguito dello ‘sfratto’ subito dalla ‘società degli amatori del teatro’ – attiva sin dall’inizio del XIX secolo – che stava usando un locale attiguo alle scuole. Nel 1842 fu bandito un concorso pubblico per la costruzione: vinse il progetto dell’architetto Felice Orsolini, poi abbandonato in quanto i costi sarebbero stati eccessivi; si attuò, invece, il piano dell’architetto Franco Poggi, ispirato al teatro Carignano di Torino e al teatro civico di Sassari. Dopo varie tribolazioni per assegnazione ed esecuzione dei lavori, il teatro fu inaugurato nel 1862, seppure privo dell’intonaco in facciata e ai lati: il costruttore infatti abbandonò improvvisamente i lavori, a causa di dissidi con l’amministrazione comunale. La prima rappresentazione fu ‘I Masnadieri’ di Giuseppe Verdi, poi negli anni si alternarono decine di compagnie, con spettacoli che variavano tra teatro classico, operette, proiezioni con il cinematografo, spettacoli di illusionismo, feste da ballo e concerti, fino alla chiusura risalente alla fine degli anni Cinquanta del XX secolo, per motivi di sicurezza. Tra la fine XX e inizio XXI secolo, una serie di lavori ha permesso la riapertura, restituendo finalmente il teatro alla città.
Oggi visiterai un edificio dal gusto neoclassico, con una facciata in conci di arenaria, in cui spiccano sei lesene con capitelli ionici e conclusa da un attico. La pianta della sala è a ferro di cavallo, con platea, tre ordini di palchi e loggione. Al centro del secondo ordine trova posto il palco reale, con il foyer posizionato alle sue spalle, le cui finestre si affacciano direttamente sulla piazza del vescovo. Ammirerai l’originale argano meccanico per il controllo del lampadario e noterai varie decorazioni sulle pareti che dividono i palchetti, le capriate lignee di sostegno al tetto e la cupola che sormonta la platea, anch’essa originale, in legno.
Necropoli di Anghelu Ruju
Una vallata con 38 tombe scavate nell’arenaria, risalenti al 3200-2800 a.C., al cui interno sono stati ritrovati persino i picchi di pietra usati per scavarle. La necropoli ipogeica di Anghelu Ruju, scoperta nel 1903 e dichiarata assieme ad altre 16 Patrimonio dell'Umanità dell'Unesco, si trova nell’entroterra di Alghero, a meno di dieci chilometri dal mare, in una fertile piana solcata dal rio Filibertu. L’area sepolcrale occupa due zone, nelle quali le tombe sono distribuite in maniera irregolare: nella prima più pianeggiante se ne trovano sette, la seconda, su una piccola collina, ne comprende 31. Le sepolture a domus de Janas (case delle fate) hanno due tipi d’accesso: uno piuttosto angusto ‘a pozzetto’, da cui si sviluppano una pianta irregolare e celle curvilinee, l’altro a dromos, ovvero con un corridoio a cielo aperto, talvolta di grandi dimensioni, munito di gradini all’ingresso. In questo caso la pianta degli ipogei è regolare e le celle hanno profilo rettilineo.
Le domus sono decorate con rilievi legati al culto dei defunti: in pareti e pilastri sono scolpiti protomi e corna taurine, che rappresentano la divinità che doveva proteggere il sonno eterno. Mentre l’incisione di false porte simboleggia l’ingresso nell’aldilà. Noterai in alcune parti la presenza di ocra rossa: è rappresentazione del sangue dei sacrifici e di rigenerazione dopo la morte. Il rito funerario ‘neolitico’ prevalente era l’inumazione, ma sono stati rilevati anche casi di semicremazione. I manufatti rinvenuti nell’area - vasi, statuette della dea Madre e parti di collane - permettono di datare la necropoli, usata per un lungo arco di tempo (1500 anni), dal Neolitico sino al Bronzo Antico (1800 a.C.).
La necropoli di Anghelu Ruju è la massima espressione sepolcrale preistorica di tutto il nord Sardegna. Tra i siti neolitici da non perdere anche un’altra area cimiteriale, le domus de Janas di santu Perdu, e soprattutto la Grotta Verde (VI millennio a.C.) dove sono stati rinvenuti fossili umani, ceramiche e graffiti. Si trova all’interno del parco di Porto Conte, che comprende anche due siti nuragici, tappa successiva del tuo tour archeologico: il nuraghe Palmavera e il complesso di sant’Imbenia. Qui ammirerai anche una villa romana, che insieme al ponte sulla laguna del Calich, sono eredità della dominazione romana. La visita culturale prosegue in città, passeggiando tra fortificazioni e bastioni del porto. Il centro storico è la parte più affascinante: un labirinto di vicoli con mura gialle, case antiche, tra cui il museo casa Manno, la cattedrale di Santa Maria (XVI secolo) e altre chiese tardo-rinascimentali. Alghero è famosa per l’‘oro rosso’, da scoprire nel museo del Corallo. Non a caso il suo litorale, lungo 90 chilometri, è detto Riviera del Corallo, dove terminato il tour cittadino, potrai tuffarti e rilassarti.
San Francesco - Alghero
È considerata uno dei migliori esempi di architettura gotico-catalana nell’Isola, non a caso impreziosisce il centro storico di Alghero, il cui intero abitato potrai ammirare dall’alto dell’antico campanile. La chiesa di San Francesco è da sempre officiata dai frati minori conventuali, che la edificarono nel tardo XV secolo sul luogo dove sorgeva una piccola chiesa circondata da un orto. L’edificio fa parte di un complesso che comprende anche convento, chiostro e campanile. La chiesa ‘attuale’, in realtà, racchiude un mix di stili architettonici e decorativi, dovuti a una ricostruzione avvenuta entro il 1598. A causa di un crollo, la parte centrale e varie cappelle laterali furono distrutte e la ricostruzione avvenne secondo gli stilemi in voga all’epoca. Risalgono all’impianto originale gotico, oltre al chiostro, il presbiterio con le cappelle laterali e le prime due cappelle a ridosso della controfacciata.
La facciata è liscia, con portale architravato e decorato con lo stemma francescano contornato da motivi ornamentali, sopra, in asse, si apre un rosone a dodici raggi. L’aula è a tre navate, divise da arcate a tutto sesto che scaricano su pilastri cruciformi. La navata centrale è voltata a botte, quelle laterali a crociera. Il presbiterio presenta una singolare pianta pentagonale, con una volta stellare a quattro punte. L’altare maggiore è in stile rococò, realizzato nel XVIII secolo con marmi policromi. Altrettanto affascinanti sono gli altari barocchi in legno dorato e policromo della navata sinistra, realizzati intorno al 1730 dalla bottega artigiana algherese Masala. Una sporgenza del quarto pilastro di sinistra dell’aula ospita una statua lignea del Cristo alla Colonna, che ogni anno viene portata in processione durante i riti della Settimana Santa. Un’ulteriore curiosità è data dall’‘omaggio’ che i frati hanno voluto fare al loro passato, facendo riprodurre nei capitelli delle cappelle presbiteriali le piante coltivate nell’antico orto.
Dalla sacrestia accederai al chiostro rettangolare, su due piani. Il livello inferiore conta 22 colonne cinquecentesche in arenaria, mentre il colonnato del piano superiore risale al XVIII secolo. Il campanile fu eretto nel 1632, con base quadrata, sulla quale – in corrispondenza del secondo livello del chiostro – si innesta una struttura esagonale di gusto gotico, conclusa in cima da una guglia ornata di gattoni. Nella base è stata ricavata una piccola cappella, con la volta impreziosita da una gemma in terracotta raffigurante San Francesco che riceve le stimmate. Dal chiostro, salendo 64 scalini e oltrepassando una botola, raggiungerai la torre campanaria, da dove ammirerai un panorama mozzafiato sull’intera città e su gran parte della spettacolare Riviera del Corallo.
Necropoli di Mandra Antine
A metà del XIV secolo, durante un’epidemia di peste che colpì il territorio storico del Meilogu, una famiglia di Thiesi andò a vivere fuori dal paese per evitare il contagio. Il piccolo della famiglia, Antine – in logudorese diminutivo di Costantino -, secondo un racconto popolare, aggirandosi tra i campi scoprì una cavità con stupende decorazioni pitturate, ne parlò ai genitori come di una ‘reggia’ e prese a frequentarla sempre più spesso. Rimasto orfano, ci si trasferì, vivendo in compagnia delle Janas, mitiche fate che abitavano gli anfratti scavati nella roccia. Qui fu trovato privo di vita, con gli occhi sbarrati, intento fino all’ultimo istante ad ammirare le pitture. Sin qui la leggenda, assolutamente reali, invece, sono le straordinarie decorazioni che adornano le pareti di una delle quattro sepolture della necropoli di Mandra Antine, cioè ‘il rifugio di Antine’. Le pitture sono allo stesso tempo un enigma e un fenomeno rarissimo: in tutto il bacino del Mediterraneo, in pochi casi sono state rinvenute decorazioni policrome all’interno di una tomba preistorica.
Il complesso sorge a dieci chilometri da Thiesi, in un costone trachitico ai piedi del monte Ittiresu, in località s’Ozastredu, immerso in un paesaggio fatto di boschi e ruscelli. La necropoli risale a un’età tra Neolitico finale ed Eneolitico (fine IV - inizio III millennio a.C.) e comprende quattro ipogei quasi ‘allineati’ lungo una leggera pendenza della parete rocciosa. La ‘leggendaria’ domu de Janas che ha dato fama alla necropoli è la tomba III, nota non a caso come ‘tomba dipinta’: la sua pianta ‘a T’ presenta un’anticella di forma ellittica che immette in una camera rettangolare, sui cui lati si aprono due ambienti ovali. Nella parete di fondo della camera osserverai la rappresentazione di una porta, inquadrata da una cornice dipinta di rosso. Alla base della ‘falsa porta’ corre una banda dello stesso colore della cornice, mentre nel lato superiore della cornice si notano sei triangoli neri, disposti a file di tre con i vertici contrapposti. Altre bande rosse si dispongono ai lati e sopra la porta, in questo caso le loro estremità sono curve, a rappresentare le corna di un toro. Da ciascun ‘corno’ si diramano dischi o globi neri pendenti: sono i simboli più enigmatici della tomba. In alto, corrono fasce rosse e nere, mentre lo sfondo della parete è giallo. Anche il soffitto mostra tracce pittoriche, in particolare due spioventi a imitazione di una capanna e venti riquadri contenenti diverse forme di colore bianco: cerchi, semicerchi e spirali.
All’esterno della tomba vedrai i resti di una vasca ricavata nella roccia e un’altra serie di simboli arcani, figure rettangolari concentriche, incise su una roccia laterale. Nella tomba I osserverai uno zoccolo e due paraste incise a rilievo e i portelli d’accesso alle cripte dove avveniva la deposizione. La tomba II è stata oggetto di numerosi crolli, in particolare dei soffitti, mentre il quarto ipogeo è il più piccolo, con una pianta ‘a L’ rovesciata, nella quale noterai la cornice del portello incisa con precisione sulla roccia, per garantire una chiusura del lastrone funerario più solida.
San Giuseppe - Sassari
Fu realizzata tra 1884 e 1888 su progetto dell’ingegnere Francesco Agnesa nell’allora periferia di Sassari, un’area isolata, equidistante da ospedale e carcere e antistante piazza d’Armi, dove all’epoca si tenevano esercitazioni d’artiglieria. La parrocchiale di san Giuseppe, per circa un ventennio dopo la fondazione, rimase avulsa dal contesto urbano, cui ‘dava le spalle’, volgendo la facciata verso zone cittadine in espansione. Solo poco prima della Grande Guerra l’isolamento si avviò al termine con progressiva nascita di istituti scolastici e altri edifici.
La facciata della chiesa s’ispira indiscutibilmente al purismo architettonico del celebre Gaetano Cima e alla chiesa palladiana di san Giorgio a Venezia (1556). I due ordini, maggiore e minore, che corrispondono rispettivamente a navata centrale e due laterali, si sovrappongono in due sistemi a fronte di tempio, che segnano la struttura dello spazio interno. Il corpo centrale della facciata è scandito da quattro colonne con capitelli corinzi, mentre ai lati figurano due nicchie a tutto sesto, cui corrispondono, nei corpi laterali, due finestre delle stesse foggia e dimensione. Nel registro mediano si aprono una finestra semicircolare e due finte rettangolari. Le navate laterali sono contrassegnate da una teoria di finestrelle timpanate, quella centrale, scandita da contrafforti, ha luci ad arco a tutto sesto. La torre campanaria ha come modello quella completata nel 1871 da Salvatore Calvia per la chiesa di santa Caterina a Mores: a canna quadrata, cupolata, su tre livelli.
L’interno a pianta rettangolare presenta un’ampia navata centrale, voltata a botte, terminante con abside semicircolare, e due laterali, sulle quali si affacciano le cappelle. Nella prima a destra, dedicata a san Luigi Gonzaga, è custodito il simulacro ligneo seicentesco di Nostra Signora della Mercede, patrona dell’arcigremio omonimo, effigie mariana, molto venerata. La prima a sinistra, dedicata alle Anime del Purgatorio, ha altare in marmo, opera di Antonio Usai, allievo del celebre scultore Giuseppe Sartorio. Sull’altare maggiore troneggia il simulacro ligneo seicentesco del santo patrono. Notevole è anche il monumentale simulacro della Dormitio Vírginis, disteso in un sontuoso catafalco barocco.
Il santuario è una splendida espressione del neoclassicismo sassarese, che risplende anche in vari elementi architettonici e decorativi dei due principali edifici di culto della città, la cattedrale di san Nicola e la chiesa di santa Maria di Betlem, oltre che in uno dei più significativi e bei edifici civili ottocenteschi, il Teatro civico.
Basilica di San Gavino
Gavino, Proto e Gianuario, perseguitati dall’imperatore Diocleziano, furono martirizzati nella colonia romana di Turris Libisonis – oggi area archeologica - a inizio IV secolo. A loro è dedicato un maestoso monumento, eretto nell’XI secolo e avvolto nel mistero di episodi leggendari. La basilica di san Gavino si erge sul Monte Agellu al centro di Porto Torres, che fu dapprima necropoli romana e paleocristiana, poi sede di due chiese (V-VII secolo), i cui resti furono inglobati nella cripta della basilica. Scenderai lungo una galleria appositamente scavata per accogliere, in artistici sarcofagi, le reliquie dei martiri, scoperte nel 1614, oggi meta di devozione di migliaia di fedeli. E ammirerai la moltitudine di reperti emersi dagli scavi e custoditi nell’Antiquiarium Turritano: tombe abbellite con mosaici e affreschi, statue e una cisterna bizantina.
Cattedrale quando la città, per un millennio (484-1441), fu sede episcopale, San Gavino sorge tra due cortili, gli atri Comita e Metropoli: il primo deriva il nome dal giudice di Torres che commissionò la costruzione della chiesa a maestri pisani. Si narra che i corpi dei martiri sarebbero stati rinvenuti dal giudice in seguito a un prodigio: durante una grave malattia, Gavino gli apparve in sogno promettendogli la guarigione se avesse cercato i corpi perché ricevessero degna sepoltura. Scoperti nelle tombe vicine all’attuale chiesetta di Balai, furono trasferiti nella basilica. In onore dell’episodio, il 3 maggio, ogni anno, si celebra la solenne processione della Festha Manna.
Scoprirai le peculiarità della basilica: la particolare pianta longitudinale – la chiesa è lunga 58 metri, il triplo di quanto è larga - l’‘anomalia’ delle due absidi contrapposte e l’assenza di facciata. L’esterno è scandito da lesene e archetti pensili e ha gli ingressi sui lati lunghi: a nord un portale romanico con rappresentazioni di Adamo ed Eva, a sud un portale gotico-catalano. Dalla grandiosità dell’esterno passerai al fascino discreto dell’interno, rischiarato dalla luce di monofore che si riflette su tre navate, divise da arcate sorrette da 22 colonne in granito rosa e marmo grigio, derivanti da edifici di età romana e bizantina. La struttura longitudinale è chiusa su ambo i lati minori da un’abside.
Teatro civico - Palazzo di Città
Un elegante palazzo neoclassico testimone delle vicende sassaresi. Fino al 1826 al posto del Teatro Civico sorgeva il Palazzo di Città, affacciato sulla scomparsa Platha de Cothinas (piazza del Comune), centro della città murata e attuale corso Vittorio Emanuele II, oggi come ieri cuore di Sassari. Precarie condizioni dell’edificio medievale e rinnovamento urbano di inizio Ottocento avviato dal re Carlo Felice portarono alla costruzione di un nuovo palazzo civico in forme neoclassiche, su progetto dell’architetto Giuseppe Cominotti. Oltre a svolgere funzioni istituzionali, diventò anche teatro. La doppia funzione durò mezzo secolo: la municipalità fu trasferita prima a palazzo Manca di Usini (1879), poi nel XX secolo nell’attuale sede di palazzo ducale. Il teatro, disegnato a ferro di cavallo sull’esempio del ‘Carignano’ di Torino e a sua volta modello per il teatro civico di Alghero (1862), fu restaurato radicalmente a partire dal 1947 e riaprì vent’anni dopo. Nuovi interventi seguirono a inizio XXI secolo. Oggi è scenario di concerti, mostre d’arte e spettacoli.
La facciata principale, prospiciente il corso, segue canoni neoclassici ‘puristi’: è sormontata da un frontone triangolare timpanato e scandita da lesene di ordine ionico. Nell’asse centrale si apre l’accesso all’atrio, dove sono collocate le statue di due grandi autori di teatro: Vittorio Alfieri e Carlo Goldoni. Sovrastano l’ingresso stemma della città e targa con datazione dell’edificio. Il Palazzo di Città, oltre che teatro, è oggi museo articolato in due sezioni, cui accederai da corso Vittorio Emanuele II e via Sebastiano Satta. L’ala ovest ospita, al piano terra, le sale ‘Memoria e Identità’ e ‘Forma e Immagine’ (rappresentazione della città cinta da mura e foto otto-novecentesche). Al primo piano ci sono le sale di rappresentanza. Una di esse, dell’intregu, diventa ‘stazione’ della festha manna, ossia la Discesa dei Candelieri (14 agosto). Al suo interno si svolge la cerimonia di omaggio dei gremi alle Autorità: il sindaco si affaccia dal balcone, insieme all’obriere del gremio dei massai, per il tradizionale brindisi e per sottoporsi al giudizio popolare sull’operato annuale, espresso sotto forma di fischi o applausi. Ai piani superiori ci sono altre due salette (didattica e ‘dei Candelieri’) e nel sottotetto il meccanismo dell’antico orologio. L’ala est ospita il centro documentale storico della città. Tra i temi principali, l’abbigliamento tradizionale. Al terzo è allestita la sala ‘Sacro e Profano’, con riferimento ai riti religiosi della Settimana Santa ed espressioni popolari come il carnevale, aspetti esemplificati dalle opere di Eugenio Tavolara: ‘Processione dei Misteri’ (1929) e ‘Mascherata sassarese’ (1937).
Ozieri
Le sue intricate e ripide strade lastricate si dispongono ad anfiteatro su un territorio dall’accentuato pendio: godrai di splendidi scorci verso la vallata sottostante ricoperta di boschi. Ozieri è una cittadina di oltre diecimila abitanti, la più popolosa del Logudoro, a circa 50 chilometri da Sassari, che, già nel XIV secolo capoluogo del Monte Acuto, nel XVIII diventò il secondo centro più importante del nord-ovest. Il suo tessuto urbano è arricchito da pavimentazioni che si aprono in slarghi, piazzette terrazzate e giardini ed è caratterizzato dalle altane, loggiati ottocenteschi. Nel centro storico uno degli edifici civili di maggior pregio è il palazzo Costi, imperdibili tratti delle vicende storiche cittadine sono le carceri Borgia. Mentre il principale di culto è la cattedrale dell’Immacolata, costruita nel XV secolo e trasformata nel XIX secolo.
Il centro è costellato da chiese, a partire da quelle dei santi Cosma e Damiano (XVI secolo) e del Rosario (XVII), ma le più importanti sono fuori Ozieri. La più celebre, una delle massime espressioni del romanico in Sardegna, è la maestosa basilica di sant’Antioco di Bisarcio, che sovrasta la piana di Chilivani. Attorno sorge un borgo, un tempo centro di vita culturale e sede di diocesi. La chiesa, alta dieci metri, fu realizzata in pietra vulcanica in tre fasi a partire dall’XI secolo. Di particolare pregio sono il portico con sei campate a crociera e la decorazione dell’abside. La prima menzione della chiesa di san Nicola di Butule è del 1135, costruita anch’essa in più fasi edilizie. Da visitare anche la chiesa di san Francesco, cui è annesso il convento dei cappuccini, uno dei due monasteri ozieresi. L’altro e il convento delle clarisse, che ospita il museo civico archeologico, che raccoglie le testimonianze di un territorio frequentato fin dalla preistoria. Dalla grotta di san Michele prende nome la celebre cultura di Ozieri, che nel Neolitico recente (fine IV millennio a.C.) si diffuse in tutta l’Isola. Abbondanti le tracce della civiltà nuragica: i nuraghi Burghidu e sa Mandra e sa Jua, pozzi sacri e tombe di Giganti. L’eredità maggiore di epoca romana è il Pont’ezzu, ponte sul rio Mannu.Il paese visse un felice momento artistico nel XVI secolo con le opere del pittore noto come Maestro d’Ozieri. A proposito di arte, da non perdere il museo diocesano di Arte sacra. Un’esposizione molto particolare e tutta da scoprire è quella del museo etnografico La taverna dell’Aquila. Ozieri, grazie al centro ippico di Chilivani, è da sempre famoso per allevamento e addestramento ippico, una tradizione espressa dal museo del Cavallo. Quanto alla cucina, i dolci che più caratterizzano il paese sono i deliziosi suspiros, biscotti, noti sin dal 1800, a base di mandorle, miele e zucchero, ricoperti di glassa.