Turri - Sant'Antioco
Si divide in tre insenature, con forme diverse tra loro, sormontate da una torre di guardia e bagnate da un incantevole mare. La spiaggia di Turri si trova nell’angolo a sud-est di Sant’Antioco, l’isola maggiore dell’arcipelago del Sulcis, a 15 chilometri dall’omonimo centro abitato: il suo paesaggio la rende una delle mete da non perdere durante il tour delle spiagge antiochensi.
Alle pendici di capo su Moru – ‘ il moro’ a simboleggiare il fatto che fosse punto di approdo per i pirati saraceni -, sul lato orientale, si trova la prima delle tre cale. È lunga poche decine di metri e ha la forma di una mezzaluna, protetta da due alte scogliere. La sua sabbia dorata è mista a piccoli ciottoli. Sul lato opposto, si estende una striscia di sabbia dal colore chiaro, mista a sassolini scuri levigati dal mare. Più a ovest troverai il terzo tratto di litorale, il più ampio, con ciottoli di dimensioni maggiori e mare trasparente che, alle tonalità turchesi e blu cobalto, aggiunge anche sfumature verde smeraldo date dal riflesso dei raggi solari sulla fitta macchia mediterranea che qui si propaga sin quasi a strapiombo sul mare. Turri è una destinazione apprezzata dagli appassionati di snorkeling, grazie a limpidezza dei fondali e ricchezza della fauna ittica, e dai surfisti, soprattutto quando soffiano venti di libeccio e ponente.
Un breve sentiero ti condurrà in cima a su Moru, dove si erge la torre Cannai. La fortezza fu edificata nel 1757, subito dopo la torre di Calasetta, per ovviare al fatto che durante la dominazione spagnola le due isole di Sant’Antioco e San Pietro non erano state dotate di strutture di avvistamento. La torre troncoconica presenta all’interno una sala circolare con una scala di pietra che conduce alla piazza d’armi, dove trovavano posto artiglierie e una garitta. Da qui era possibile controllare il golfo di Palmas e avvistare eventuali pericoli per tonnare e saline. Da questa torre partì l’allarme durante il tentativo di invasione francese del 1793 e, successivamente, per gli assalti tunisini degli inizi del XIX secolo, prima di venire dismessa nel 1867. Dal promontorio il tuo sguardo abbraccerà le scogliere dell’isola, il profilo degli isolotti del Vitello e della Vacca, nonché il volo di cormorani e falchi pellegrini.
Per raggiunge Turri oltrepasserai le spiagge di Maladroxia e Coaquaddus, i due ‘gioielli’ del versante est di Sant’Antioco. La prima, dove sventola la Bandiera Blu, è caratterizzata da sabbia candida e fine con qualche ciottolo e acque dai riflessi verdi e turchesi. A Coaquaddus la sabbia è incorniciata da scenografiche scogliere calcaree e s’immerge nel mare azzurro.
Nuraghe Barru
Un tempo difendeva il territorio circostante, ora custodisce la memoria dei suoi antichi frequentatori, raccontando a poco a poco, durante le campagne di scavo, le intricate vicende e regalando talvolta qualche gradita sorpresa. Il nuraghe Barru domina dall’alto di un rilievo calcareo sulla piana sottostante, divisa a metà tra i Comuni di Guasila e Guamaggiore. La visuale dal monumento spazia dai due paesi fino ai monti di Segariu e al centro abitato di Villamar. Fu costruito in più fasi, in blocchi di marna calcarea squadrati e disposti a filari regolari. Le campagne di scavi hanno portato alla luce una struttura complessa, formata da un mastio centrale, orientato in direzione nord, e due torri disposte attorno a un cortile e collegate tramite cortine murarie. La pianta del mastio è ellittica, tipica dei proto-nuraghe, per cui è probabile che la torre centrale rappresenti il nucleo originario e che in momenti successivi siano state edificate le torri laterali e la cinta muraria. L’area finora indagata si estende per tremila metri quadri, ma forse il villaggio era molto più esteso. Lungo la cortina osserverai un sistema di scale e diversi silos, che si ipotizza venissero usati per la conservazione dei prodotti agricoli.
Il Barru è ancora un affascinante enigma, a causa dei numerosi interventi - non solo di ampliamento, ma anche di ridimensionamento degli spazi -, con modifiche strutturali, ripetuti cambi di progetto e restauri eseguiti già in età antica, che rendono complessa la ricostruzione della sua storia. Adiacente alla torre est si trova un piccolo vano, il cui uso resta ancora un mistero. La terza torre, orientata a sud, ha un diametro leggermente inferiore rispetto alle altre due. Dentro un piccolo ambiente ricavato nello spessore murario, sul lato ovest del cortile, si trova un pozzo-cisterna, dove furono rinvenute ossa animali e umane, frammenti ceramici e alcuni recipienti in ottimo stato di conservazione. Accederai al vano attraverso un ingresso architravato che si apre sul cortile, e noterai anche una stretta scala che sale al livello superiore.
Probabilmente agli inizi dell’età del Ferro la fortezza assunse funzioni religiose: lo testimonierebbero sia la tipologia di ceramiche rinvenute nel pozzo che il ritrovamento di un deposito con manufatti di bronzo e spade votive riposti in maniera ordinata e sigillati con cura. A nord-est rispetto al corpo centrale noterai le tracce di altre strutture, appartenenti al villaggio di capanne, in gran parte ancora da indagare. L’ultimo mistero del Barru riguarda la sua sorte: non sono state trovate significative quantità di materiali successivi all’età del Ferro e non risultano tracce di distruzione dell’edificio, per cui l’ipotesi più plausibile è che, per qualche oscuro motivo, fu abbandonato, destinato a essere sepolto dai sedimenti per millenni, prima di tornare alla luce tremila anni dopo.
Il mondo nascosto delle grotte
Custodiscono capolavori della natura, celano segreti, conservano memoria di leggendari abitanti, tuttora ne ospitano qualcuno nei loro meandri, a volte parlano. Come sa Oche, ‘la voce’, il cui ululato risuona nella valle di Lanaitto a Oliena, generato da correnti d’aria mosse nella grotta ‘gemella’ su Bentu. A breve distanza risuonano le parole di Grazia Deledda, del suo romanzo ‘L’edera’ e dei racconti ottocenteschi, a metà tra realtà e leggenda, ambientati nella grotta Corbeddu. Era la dimora di un ‘bandito gentiluomo’, da cui prese nome e che la trasformò in un tribunale tutto suo. Da qui provengono alcuni dei più antichi resti umani mai rinvenuti in un’isola mediterranea. Anche Ispinigoli di Dorgali e la sua ‘colonna’ alta ben 38 metri sono circondate da storie originali. Chissà se la voragine che sprofonda per 60 metri alla base della grotta sia stata davvero teatro di sacrifici umani, tanto da meritarsi il nome di ‘abisso delle vergini’. Da queste parti il passaggio dai monti al mare è breve e si tingono di leggenda pure gli avvistamenti della foca monaca: se ancora frequenti o meno il golfo di Orosei è un mistero, sicuramente aveva casa a Cala Gonone, nelle grotte del Bue Marino, a lei intitolate. La ‘stanza delle spiagge’ era il rifugio sicuro per dare alla luce e svezzare i cuccioli. Anche le genti del Neolitico si riunivano qui, nelle stesse ‘sale’ a pelo d’acqua dove da decenni, ogni estate, vanno in scena i concerti di Cala Gonone Jazz.
Su Cuaddu de Nixias
È considerata la più antica tomba di Giganti in assoluto, caratterizzata da elementi costruttivi inusuali nel sud Sardegna. Su Cuaddu de Nixias sorge nelle campagne di Lunamatrona, lungo la strada che conduce alla vicina Villanovaforru, immersa nell’incantevole paesaggio collinare della Marmilla, a ridosso della giara di Siddi. La sepoltura preistorica mostra particolarità che la rendono affascinante e, allo stesso tempo, misteriosa. Ti colpirà innanzitutto la stele centinata al centro dell’esedra, elemento centrale delle tombe di Giganti del centro-nord dell’Isola ma raro nel sud Sardegna, dove il prospetto è generalmente a filari di conci rocciosi. La stele, costituita da una roccia in arenaria alta circa tre metri con forma arcuata alla sommità, presenta la fronte divisa in tre fasce delimitate da listelli, decorata con un bordatura in rilievo. Noterai anche un curioso foro circolare, realizzato in epoche successive, da cui deriva il nome del monumento: secondo una leggenda popolare al foro venivano legati is cuaddus, i cavalli. Mentre Nixias è il nome della località. Un altro elemento inconsueto è l’orientamento della tomba, direzionata lungo la direttrice ‘anomala’ nord-est/sud-ovest.
La sua origine si colloca nell'ambito della facies culturale di Monte Claro, intorno alla seconda metà del III millennio a.C. In quest’epoca fu costruita una tomba a cista litica, delimitata da quattro lastre ai lati e da una copertura a piattabanda, oggi corrispondente alla parte finale della camera sepolcrale. Su essa fu innestata, durante il Bronzo Medio (XVI-XIV secolo a.C.), una camera a corridoio dolmenico, realizzata con blocchi di marna infissi ‘a coltello’, lunga poco più di dieci metri e con esedra monumentale in facciata. Le lastre dell’esedra sono infisse nel terreno ad altezza decrescente a partire dai lati della stele, formando un arco di 14 metri.
Poco distanti dal sito funerario si ergono due nuraghi. Per le comunità che li frequentavano molto probabilmente su Cuaddu de Nixias rappresentava il ‘sepolcreto’ di riferimento. Il più vicino è il nuraghe monotorre Trobas, distante circa 500 metri dalla tomba. Presenta un diametro esterno di tredici metri e una camera a pianta circolare larga sei, dove noterai due nicchie. Gli scavi hanno evidenziato tracce di un incendio, avvenuto quando l’edificio era già parzialmente crollato, che fu probabilmente causa del suo abbandono definitivo. Il secondo nuraghe è in direzione est, quasi adiacente all’abitato di Lunamatrona, noto come Pitzu Cummu. Si erge sopra un colle alto 200 metri e mostra una struttura complessa, formata da torre centrale e quattro torri secondarie, costruite in blocchi di basalto. All’interno un pozzo dal diametro di un metro e mezzo; attorno, lungo il pendio del colle, tracce di altre strutture, forse pertinenti al villaggio.
Sa Domu de Orgia
Non solo è il più grande tempio a megaron nuragico finora conosciuto, ma anche il luogo di ritrovamento di un vero e proprio ‘tesoro’ archeologico, nonché il protagonista di una leggenda popolare. Sa Domu de Orgia sorge a circa mille metri d’altitudine sul monte Cuccureddì, nel territorio di Esterzili, borgo incastonato tra altopiani e valli della Barbagia di Seulo. Il santuario, racchiuso da un recinto di forma ellittica, misura 22 metri e mezzo di lunghezza e poco meno di otto di larghezza. Si compone di un vestibolo, ottenuto dal prolungamento dei muri laterali, una cella divisa in due ambienti e un piccolo opistòdomo sul lato opposto all’ingresso, probabilmente con la funzione di rendere più simmetrica la struttura. Il materiale di costruzione è lo scisto, lavorato in blocchi squadrati e disposti a filari orizzontali.
L’ipotesi di datazione più accreditata è che sia sorto nel Bronzo Recente, sul finire del XIII secolo a.C., sovrapponendosi a un precedente villaggio nuragico. All’interno, noterai che il vestibolo e le camere della cella conservano il bancone-sedile perimetrale, dove venivano deposte le offerte votive. Inizialmente si è pensato che il tempio fosse molto più recente, data anche la somiglianza della sua pianta con quelle dei templi micenei, ma i reperti rinvenuti rimandano alla civiltà nuragica. Il tempio sarebbe quindi una conseguenza dell’influenza portata da genti di stirpe greca in Sardegna durante il Bronzo recente. Tra questi oggetti, spiccano i bronzetti votivi provenienti dal vestibolo, rappresentanti sacerdotesse, guerrieri e cacciatori, simili a quelli rinvenuti nel vicino santuario di Santa Vittoria di Serri, tanto da ipotizzare un’‘officina’ comune. Il santuario ha restituito però anche un’altra sorpresa, numerose monete di età romana, che testimoniano una continuità d’uso del tempio anche in epoche successive, fino a più di mille anni dopo la sua edificazione.
Tra le mura del tempio aleggia la leggenda della sacerdotessa Orgia, strega e fata allo stesso tempo, che visse qui fino a che gli abitanti dei villaggi circostanti non la obbligarono ad andarsene. La strega decise di vendicarsi, nascondendo due cesti, uno contenente un tesoro, l’altro uno sciame di terribili muscas maceddas, le mosche assassine. I temerari che avessero osato andare alla ricerca del tesoro, aprendo il forziere sbagliato, avrebbero causato una strage, per cui nessuno tentò l’impresa e il ‘bottino’ sarebbe ancora nascosto tra le mura.
Poco meno di tre chilometri a nord del tempio visiterai l’altra area sacra di Monte Nuxi-Santa Vittoria, dove, in posizione di controllo su nuraghi e villaggi sorti attorno al corso del fiume Flumendosa, sorge un tempio – o forse capanna - a pianta circolare, un recinto e due fonti sacre. Sul lato interno del recinto noterai tracce di una panchina, che in origine percorreva l’intero perimetro. Reperti di età romana sono stati rinvenuti anche in questo sito, a riprova del fatto che entrambe le aree, Domu de Orgia e Monte Nuxi, hanno mantenuto per millenni un’aura di sacralità, rispettata dalle popolazioni che le hanno frequentate.
Girotonno, è Carloforte
Il cibo identifica e racconta il territorio. In pochi luoghi del mondo l’affermazione è veritiera come in Sardegna. La cucina è uno dei tratti sardi maggiormente caratterizzanti e distintivi, un aspetto che va oltre le prelibatezze preparate nell’Isola e si insinua nelle pieghe della sua storia. A San Pietro, isola nell’Isola, un luogo dal mare meraviglioso e dal carattere forte, la tradizione culinaria rappresenta identità e anima della comunità. Il Girotonno ne è il simbolo. Ogni anno l’originale festival gastronomico racconta ‘uomini, storie e sapori sulle rotte del tonno’. Carloforte, unico centro abitato dell’isola, mostra al mondo una tradizione di pesca e cucina in un appuntamento internazionale espressione di una cultura millenaria, una tradizione incentrata su tonnare, rais e ‘tonnaroti’.
Peregrinatio Fidei
Un tesoro composto da una collezione di stupende statue policrome del XVI e XVII secolo e di oggetti sacri provenienti dalle chiese campestri del territorio. Lo custodisce il museo Peregrinatio Fidei, ospitato dentro una seicentesca chiesa (oggi sconsacrata) della periferia sud di Mandas, dedicata inizialmente alla Vergine del Rosario e in seguito a San Cristoforo. Statue e arredi provengono principalmente dalla parrocchiale di San Giacomo apostolo, ma numerosi oggetti furono recuperati anche da depositi e magazzini semiabbandonati o da armadi collocati nelle sagrestie di edifici di culto officiati di rado e in condizioni di conservazione precarie. Tra i manufatti esposti, ammirerai le produzioni dell’argentiere genovese Luigi Montaldo, che operò a Cagliari sul finire del XVIII secolo e realizzò arredi per le cattedrali del capoluogo e di Iglesias.
Spiccano, inoltre, le statue raffiguranti San Luigi IX re di Francia, sant’Isidoro, sant’Efisio, santa Vittoria e la Vergine dormiente su un baldacchino in legno intagliato e dipinto. Il museo si ricollega idealmente al Cammino di Santiago, anche grazie alla devozione dei mandaresi nei confronti di San Giacomo, patrono del paese.
Il ‘tempio’ che ospita il museo ha pianta longitudinale a navata unica, con tre arcate a tutto sesto e copertura interamente in legno. La facciata è a capanna e contiene il portale ligneo sormontato da un arco e una finestrella rettangolare. Sul lato destro noterai alcune finestrelle e tre possenti contrafforti in pietra. A pochi passi dall’edificio ammirerai il compendio formato dall’antico convento dei frati minori e dalla chiesa di San Francesco. Gli ambienti del convento si dispongono attorno a un ampio e caratteristico chiostro: in alcuni di essi potrai osservare affreschi con scene agiografiche e della via crucis. Oggi la struttura è sede di eventi culturali.
L’importanza storica di Mandas, il cui territorio divenne ducato nel XVII secolo, è testimoniata dai palazzi del centro, dallo splendore degli arredi della parrochiale di San Giacomo e dal patrimonio etnografico esposto nel museo is Lollas de aiaiusu, ospitato in una dimora nobiliare settecentesca. Le parole di ammirazione che David Herbert Lawrence dedicò al borgo nel suo Sea and Sardinia del 1921 riecheggiano lungo la tratta del Trenino Verde, in particolare nel paesaggio di colline coltivate, gole e pareti rocciose, attorno alla stazione ferroviaria, la stessa visitata un secolo fa dallo scrittore inglese nel suo viaggio da sud a nord dell’Isola.
Portopaglietto
Si distende ad arco, delimitata e riparata da due scogliere, oltre le quali verdeggia un’ampia e ombrosa pineta. La spiaggia di Portopaglietto sorge nella parte nord dell’abitato di Portoscuso, borgo di origine spagnola da sempre dedito alla pesca, specie del tonno. Il tratto sabbioso della spiaggia, lungo circa 250 metri, assume tonalità dorate, che risplendono di fronte a un mare azzurro e cristallino. Al largo, di fronte al litorale, vedrai spuntare lo scoglio La Ghinghetta, che ospita un pittoresco faro colorato a fasce rosse e nere. Volgendo oltre lo sguardo, scorgerai il profilo costiero dell’isola di san Pietro. I lati dell’arenile sono invece rocciosi fino ai piedi delle scogliere di trachite, una delle quali – quella più a sud -, è sormontata dalla torre di Portoscuso, fortezza spagnola eretta a difesa della costa e dei pescatori di tonni e coralli, divenuta nel tempo simbolo del paese. Oggi è ancora in ottime condizioni e viene usata per eventi culturali. Il promontorio nord, invece, ripara dai venti, soprattutto dal maestrale, caratteristica che, assieme alla bassa profondità del fondale sabbioso, rende Portopaglietto una destinazione adatta alle famiglie con bambini. Il riparo nelle ore più calde è garantito dall’estesa pineta distante meno di duecento metri, dove troverai anche un parco giochi.
Portopaglietto è circondata da imperdibili scenari paesaggistici: un sentiero che parte direttamente dalla spiaggia in direzione sud – attraverso cespugli di mirto e fichi d’india - ti permetterà di raggiungere la torre spagnola. Da qui alla tua sinistra noterai gli edifici della storica tonnara su Pranu, risalente al XVII secolo. Si sviluppa attorno a un cortile affacciato sul mare, nel quale vedrai un orologio solare in marmo. La struttura è ancora attiva per le mattanze, tra maggio e giugno. Al suo interno si erge la chiesa di sant’Antonio da Padova.
A nord di Portopaglietto, invece, raggiungerai vari punti panoramici percorrendo la strada che costeggia la pineta. Il primo è sa Cala ‘e su Zurfuru, caletta di sole rocce frequentata da numerosi appassionati di snorkeling. Proseguendo oltre, ecco Capo Altano, caratterizzato dalla presenza di fortificazioni militari abbandonate e location perfetta da dove ammirare le luci del tramonto. Dall’alto del promontorio, oltre a san Pietro potrai individuare Calasetta e il limite settentrionale dell’isola di sant’Antioco, mentre sulla destra spunta la costa iglesiente fino a Nebida.
Tomba di Giganti di San Cosimo
È una delle maggiori costruzioni megalitiche dell’Isola, ne esiste anche una ‘copia’ in scala ridotta, si trova poco lontano altri ruderi nuragici - ancora da indagare - e ha restituito un manufatto che potrebbe essere la più antica importazione micenea rinvenuta in un sito archeologico sardo. La tomba di Giganti di San Cosimo sorge in una vallata del territorio di Gonnosfanadiga che si apre come un anfiteatro naturale ai piedi del monte Terra Maistus, in un paesaggio dominato dal profilo del monte Linas. L’area ospita un vero e proprio parco archeologico, in cui trovano posto anche un’altra sepoltura dello stesso tipo, più piccola, e due nuraghi.
Nota anche come sa grutta de santu Giuanni, la sepoltura fu considerata dal ‘padre’ dell’archeologia sarda Giovanni Lilliu – nell’opera ‘La civiltà dei sardi’ - la più grande tomba di Giganti fino ad allora conosciuta: è lunga trenta metri e la sua esedra è larga 26. È stata costruita in granito, reperito nei dintorni. In base ai reperti rinvenuti all’interno e attorno, la datazione del monumento è stata collocata tra XV e XIV secolo a. C., durante il Bronzo medio. Il prospetto è tipico delle tombe di Giganti del centro-sud della Sardegna, ovvero a filari e ingresso architravato privo di stele. Lungo il perimetro esterno noterai delle pietre addossate alla base, che formano un gradino: tale soluzione servì per due scopi, rendere più solida la struttura e impedire le infiltrazioni d’acqua piovana. Un piccolo corridoio introduce alla camera vera e propria, a pianta rettangolare e sezione tronco-ogivale. Il pavimento originale, sopravvissuto solo in pochi punti, consisteva in un rivestimento di pietre levigate di diversa grandezza e ciottoli, posato sopra un bancone naturale di roccia granitica. Tra i reperti venuti alla luce durante gli scavi – esposti al museo archeologico Villa Abbas di Sardara – ammirerai tazze carenate, un bicchiere, alcuni recipienti e soprattutto perle in pasta vitrea verde, le quali sono state ritenute di produzione micenea, pertanto la collana di cui facevano parte potrebbe rappresentare il più antico gioiello ritrovato in Sardegna proveniente dalla Grecia. Tre recinti, tra loro concentrici, circondano la tomba. Il più ampio si sviluppa verso nord-ovest. Lungo la stessa direzione, a circa settanta metri, noterai la seconda sepoltura. Presenta la stessa tipologia costruttiva, ma è di dimensioni decisamente minori: la camera è lunga poco meno di tre metri, l’esedra è larga quattro metri.
A poca distanza dalla necropoli sorgono i nuraghi San Cosimo, detto anche su Bruncu ‘e s’Orcu, e San Cosimo II, probabilmente monotorri, entrambi ancora da scavare. Il sito del primo nuraghe corrisponde al territorio del villaggio medievale di Serru, che non sopravvisse a un assalto di pirati saraceni degli inizi del XVII secolo. L’unica traccia esistente del villaggio sono i ruderi della chiesetta dedicata anch’essa a San Cosimo, che dà nome a località, tomba e nuraghi.
Casa Spadaccino
In principio stazione ferroviaria, poi villa padronale, in seguito per decenni abbandonata, oggi è un centro culturale. Sono le quattro vite vissute dalla Casa Spadaccino, storica struttura a due passi dal mare, a su Loi, località del territorio di Capoterra. La sua costruzione risale al 1873, a opera della società mineraria francese Petin et Gaudet, titolare di una concessione nelle montagne dell’entroterra. Era collocata alla fine della ‘strada dei genovesi’, antica via dei carbonai sulla quale fu impiantata una ferrovia. L’edificio svolgeva la funzione di stazione capolinea dei convogli carichi del ferro estratto nella miniera. A partire dagli anni Trenta del XX secolo, divenne fulcro di una florida azienda agricola, con attorno vigneti, orti e frutteti. La zona si trasformò in un ampio e colorato giardino, dove si applicavano tecniche di coltivazione all’avanguardia, tanto che si guadagnò il soprannome di su spantu, ‘lo stupore’, che ancora oggi identifica una borgata poco distante da su Loi.
Lo sviluppo urbanistico del litorale capoterrese portò alla vendita di gran parte dei terreni, con conseguente declino e chiusura dell’azienda. Casa Spadaccino – che deve il nome al suo ultimo proprietario – fu abbandonata per decenni, prima di essere acquisita e ristrutturata dal Comune di Capoterra. Oggi ospita il centro di educazione ambientale a alla sostenibilità laguna di Santa Gilla e il museo della laguna (MuLAG), oltre che spettacoli e manifestazioni culturali. L’esposizione è un viaggio attraverso gli aspetti naturalistici ed eco-sistemici della laguna, nota anche come stagno di Cagliari. Ripercorre, inoltre, il suo rapporto evolutosi nel tempo con gli abitanti di Capoterra. Non mancano laboratori didattici e percorsi tematici volti alla sensibilizzazione verso l’ambiente lacustre.
L’edificio si compone di un corpo centrale a un solo piano, con sottotetto e un portico d'ingresso a cinque archi, al quale sono addossati altri due corpi di fabbrica tra loro identici. Un grande e riparato giardino offre quiete e spazio per attività a cielo aperto ed eventi. Potrai unire la visita alla ‘casa’ a un’esperienza a stretto contatto con la natura sulle sponde dello stagno. L’ambiente lagunare si estende per 1300 ettari tra Cagliari e i territori di Assemini, Capoterra ed Elmas. La fauna che lo popola è varia e affascinante per gli appassionati di birdwatching, che possono contare su postazioni dedicate: osserverai aironi, falchi, cavalieri d’Italia e soprattutto i fenicotteri rosa, che qui nidificano da decenni. I sentieri attorno alla laguna possono essere percorsi a piedi, a cavallo e in mountain bike.